Ascoli - Il Festival dell'Appennino, con l'organizzazione della Compagnia dei Folli, si è chiuso con un'interessante conversazione di Philippe Daverio preceduta da un video mapping sulla chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio.
Il filo conduttore dell'intervento di Daverio è stato quanto mai attuale per il nostro territorio: il terremoto.
Un'elaborazione del dramma che per certi versi ha tentato di attenuare o di spiegare il peso psicologico che il Piceno e il resto delle zone colpite nel centro Italia ha subìto e continua ad introiettare nel suo vivere quotidiano.
Philippe Daverio ha tracciato connessioni geografiche, antropologiche e culturali che legano o escludono dal terremoto.
“E' interessante riflettere sul fatto – ha detto Daverio – che popoli testimoni di così antiche civiltà come i Romani e i Greci abitino zone sismicamente da sempre attive. Il terremoto costituisce da sempre un destino comune, ma pur essendo questi popoli e le loro civiltà così antiche hanno abitato e abitano zone geologicamente più “giovani” del resto d'Europa. Tedeschi, francesi sono invece in quelle parti del continente europeo geologicamente più “vecchie” e senza terremoti”.
Poi il parallelo tra architettura e identità, presupposto suggestivo per cercare di comprendere l'ossessione della distruzione dei luoghi, dei centri storici legati agli effetti dei terremoti.
Per noi italiani, per i greci e anche per i cinesi l'architettura, le costruzioni monumentali, le testimonianze delle nostre epoche storiche, secondo Daverio sono rappresentative dell'identità dei nostri popoli: Pantheon, Colosseo, Pompei, il nostro teatro romano, la porta gemina, sono la foto sulla nostra carta d'identità. E quando quella foto viene stracciata, finisce nello strapiombo della terra che si apre e spezza, c'è un pezzo di noi che scompare: stravolge certezze, genera dolore e preoccupazione per il futuro.
I popoli “barbari”, i nordici erano invece nomadi e le loro strutture architettoniche ai tempi di Roma erano inesistenti. D'estate si spostavano e d'inverno si fermavano ma per ripararsi costruivano tende con pelle di animali per ripararsi dal freddo. In primavera riprendevano il viaggio e abbattevano quelle tende per evitare che altri gruppi nomadi potessero utilizzarle.
I “barbari” non hanno città che vengono distrutte da terremoti, non hanno Pompei sommersa dalla lava del Vesuvio.
Non hanno identità che soffre per le distruzioni sismiche.
E per riaffermare le nostre identità dopo un terremoto che ciclicamente dovremmo essere pronti ad aspettarci, anche dopo qualche centinaio d'anni, noi ricostruiamo. Torniamo dal fotografo a metterci in posa per la nuova carta d'identità.
E qui Daverio trae spunto dal suo girovagare professionale in Italia per la Rai e si sofferma sui differenti approcci alla ricostruzione.
In alcuni Comuni del Fiuli, racconta Daverio, dopo il terremoto le comunità hanno partecipato alla ricostruzione dei loro borghi cogliendo l'occasione per migliorarli. Togliendo tapparelle di plastica o infissi in alluminio, sostituendoli con manufatti in legno.
Quei borghi dopo la ricostruzione sono tornati a vivere. Quelle comunità continuano a popolarli.
In Umbria nel precedente terremoto ci sono stati centri storici colpiti, ma l'approccio alla ricostruzione è stato diverso: molte famiglie sono andate a vivere in case più moderne nelle zone d'espansione periferica. Il tempo però ha giocato a sfavore. Quelle famiglie che si erano spostate si erano abituate a facilitazioni che prima non avevamo: hanno potuto parcheggiare l'auto davanti casa, potevano facilmente rientrare dalla spesa dalla strada direttamente in casa. Prima dovevano fare a piedi scalinate di travertino in salita per tornare nelle abitazioni del centro storico con il peso di bottiglie di acqua minerale e del resto della spesa e certo dovevano lasciare le auto a valle. I nuovi vantaggi li hanno convinti a non tornare nelle loro antiche abitazioni. Ora addirittura si fa fatica a vendere quegli appartamenti nei borghi storici.
Poi c'è il terzo esempio. Il terremoto del Belice con Gibellina, in Sicilia. “Li c'è il diavolo – commenta Philippe Daverio – Hanno ricostruito città nuove completamente deserte. Troviamo accozzaglie tra i più cattivi esempi d'architettura, tranne qualcuno bravissimo che però ha realizzato qualcosa che è fuori da ogni contesto”.
E sorvoliamo sul fatto che i Trentini avrebbero realizzato 4 mila casette di legno in 2 mesi se qualcuno glielo avesse chiesto per i terremotati del centro Italia.
Però Daverio parte dal terremoto per puntare sulla via d'uscita per l'Italia con una condizione obbligatoria: che si mandino in Europa politici che sappiano leggere e scrivere. E che la loro competenza li faccia essere presenti nel momento nel quale i bandi europei vengono scritti. E' quello il momento cruciale per stabilire dove andranno destinate le risorse. E cita l'esempio della Germania che fa man bassa.
Per Philippe Daverio infatti il nostro Paese ha la necessità di una grande operazione di restauro perché la bellezza di un tempo torni a risplendere.
Le risorse economiche per questo grande Piano Marshall nel restauro italiano sono appunto in Europa.
“E l'Unione Europea – dice Daverio – non può dire di no perché i “barbari”, i tedeschi o i francesi, se no ci fosse stato il Norcino, mangerebbero il maiale a pezzi non ci sarebbero i wurstel cioè salsicce insaccate. Sono stati i macellai d Norcia a esportare quella tecnica con le salsicce. I barbari dovrebbero fare il monumento al Norcino per quella invenzione”.
Infine l'appello finale prendendo spunto da suo figlio: i giovani dovrebbero tornare a fare la rivoluzione, invece c'è appiattimento.