Ascoli - Questa tragedia della pandemia deve farci riflettere su molti aspetti che investono situazioni locali e più generali. È stata per prima colpita, con il Veneto, la Lombardia, da tutti conosciuta come sede di eccellenza nazionale della sanità; nonostante questo primato gli effetti sono stati catastrofici, con una crisi fino quasi al collasso delle strutture emergenziali ed una mortalità inaccettabile se paragonata, per esempio, a quella della Germania.
La situazione che si è determinata
in Italia è il risultato di un’organizzazione sanitaria che,
seppur eccellente, ha perso da anni la sua vocazione di Sistema
Sanitario Nazionale. In Lombardia la scelta
privatistico-imprenditoriale, già inaugurata da Formigoni venti anni
fa, in cui il 40% delle risorse sono indirizzate al privato, ha
spostato completamente l’asse dell’intervento sanitario verso le
strutture ospedaliere, spesso private, a scapito del presidio socio
sanitario territoriale ed è così che è mancato un fondamentale
filtro che ha comportato una carenza nelle diagnosi precoci e nella
medicina di rete, finendo così per intasare le strutture
emergenziali con il risultato che sappiamo.
Indirizzare una importante parte
delle risorse disponibili per la sanità verso i privati, ha finito
per produrre l’intasamento delle strutture emergenziali pubbliche
perché, com’è ovvio, i privati hanno irrinunciabili obiettivi di
bilancio. Di conseguenza i posti in rianimazione disponibili presso
queste strutture sono stabiliti sulla base di esigenze che rispondono
a criteri diversi da quelli che dovrebbe dare chi ha a cuore la
salute pubblica. Evidenza di questo fatto la ritroviamo nel gap tra i
posti di rianimazione in Italia e quelli disponibili in Germania: ben
12.000 unità.
La soluzione trovata dalla Regione
Lombardia, la costruzione nella Fiera di Milano di un reparto di
rianimazione, affidata a Bertolaso ed al Sovrano Ordine di Malta,
adottata fuori tempo massimo, può essere letta come un mero fatto
politico, come sostenuto dal Dott. Gattinoni, uno dei massimi esperti
in rianimazione, al contrario, per fortuna, seppur con enormi
sacrifici, la sanità pubblica è riuscita a fronteggiare questo
periodo emergenziale senza che a nessuno sia stato negato l’accesso
alle strutture ed agli operatori di cui aveva bisogno.
Nonostante la negativa esperienza lombarda di cui sopra, anche la Regione Marche ha deciso di costruire una rianimazione facendosi aiutare dal Bertolaso e dal Sovrano Ordine di Malta ed anche qui si è arrivati fuori tempo massimo, ma il fatto più importante è che la struttura è scollegata da altri presidi sanitari; chiunque abbia cognizione di medicina sa che un centro del genere non può prescindere da una radiologia di livello, un laboratorio esami, ma soprattutto di figure professionali diverse dai rianimatori e cioè: cardiologi, pneumologi, infettivologi, internisti; specialisti che in genere sono disponibili nelle strutture ospedaliere.
Questa struttura sembra più una
cattedrale nel deserto che un’astronave, così come è stata
battezzata da Bertolaso. Altre critiche riguardano i costi ventilati
per l’acquisizione del materiale: 140.000 euro a posto letto per
un’opera di necessità temporanea per la cui dismissione sono già
previsti 2.000.000 euro di spesa. Anche l’idea di trasferire i
pazienti gravi, intubati, provenienti da altri ospedali, è poco
condivisibile, basti pensare che vengono “sottratti” a medici ed
infermieri che ne hanno seguito il decorso clinico.
Pensando ad una seconda ondata
infettiva non pare logico ripercorrere le strade che ci hanno portato
al disastro appena vissuto. Piuttosto che prevedere cattedrali nel
deserto faremmo meglio a impegnare quelle risorse per combattere
l’infezione sul territorio, prima di dover ospedalizzare un numero
enorme di pazienti.
Abbiamo capito che con il virus
dovremo convivere a lungo, combatterlo sul territorio vuol dire
acquisire e rendere disponibili dispositivi di protezione
individuale, predisporre per una diagnostica pronta con tamponi da
effettuare possibilmente a domicilio, quindi adibire personale a tale
scopo che potrebbe avere anche il compito di assistenza a pazienti
meno impegnati (“testare, tracciare, trattare” le cosiddette tre
T). L’unico modo di sapere quanto è estesa l’infezione è quello
di fare tamponi al maggior numero possibile di persone.
Si dovrebbe pertanto procedere
all’acquisizione ed elaborazione dei dati, all’isolamento degli
infetti in strutture idonee per non alimentare il contagio familiare,
alla ricerca dei contatti da sottoporre a tamponi e ad una eventuale
quarantena per bloccare la trasmissione.
Siamo tornati al punto di partenza:
scegliere una medicina del territorio, con aumento del personale
medico ed infermieristico ed acquisizione dei suddetti strumenti, che
ci porrà al riparo da possibili recrudescenze del virus (ponendo di
fatto la possibilità di sviluppo di una sanità pubblica capillare),
o persistere nella riproposizione di modelli che poggiano sulla
fabbricazione di nuove strutture con commistioni pubblico privato
tutte da chiarire?
Il Capogruppo Consiliare di “A & P”
Emidio Nardini