Cari lettori per farvi avere una comprensione più corrispondente alla realtà della situazione dell'epidemia da Coronavirus ci affidiamo alla competenza. In questo caso vi proponiamo un articolo del Corriere della Sera scritto dal collega Marco Imarisio che intervista un virologo d'eccezione, il prof. Giorgio Palù.EMERGENZA
Perché lo ritiene tale?
«I benedetti tamponi ci danno la misura dei casi incidenti, ovvero quanti casi abbiamo al giorno in un determinato periodo. La prevalenza, un dato statistico che si ottiene attraverso l’esame del sangue, ci mostra invece la distribuzione del virus e può fornirci informazioni fondamentali»
Quali?
«Incrociata con altri
dati, può permetterci di capire se esiste una immunità specifica al virus, cosa
che al momento nessuno sa, quanto può durare, e può darci indicazioni su come
proteggerci dal contagio di ritorno, che in futuro diventerà non un problema,
ma “il” problema».
Vi state portando
avanti?
«L’intenzione è quella.
Ci servono, e parlo dell’Italia intera, dati che al momento non sono in nostro
possesso. Dobbiamo mappare in fretta i soggetti asintomatici che sono o non
sono venuti a contatto con il virus. In una fase di graduale ripresa delle
attività, che spero venga presto, sono queste le cose da sapere, non altre».
Di coronavirus ci
si riammala?
«Ci sono alcuni casi
aneddotici di persone malate più volte. Ma non fanno statistica. Però
conosciamo la storia di questo virus».
Cosa potremmo
imparare?
«Come la Mers e la Sars del
2012, e gli altri di quella famiglia che danno semplici bronchiti, si tratta di
virus che mutano poco. Ma, per fare un esempio, capita di prendere il
raffreddore più volte».
Quanto ci vorrà
per avere una risposta?
«Dobbiamo attendere
informazioni sulla variabilità della sequenza di questo specifico genoma. Al
contrario di molti, non sono però pessimista. La Sars si è estinta in un anno,
la Mers è ricomparsa in casi molto sporadici. Questo virus muta, ma poco».
Perché la
Lombardia ha un tasso di mortalità che ha raggiunto anche il 14% mentre il
Veneto è fisso sul 3,3%?
«Sono due regioni con una
dimensione socio-morfologica molto diversa. Codogno e Lodi sono città dove si
vive in condominio, Vo’ Euganeo è un paesino sul Colli Euganei».
Esaurita la premessa?
«Il Veneto ha ancora una
cultura e una tradizione della Sanità pubblica, con presidi diffusi sul
territorio. La Lombardia, molto meno».
Sono stati fatti
degli errori?
«Non sta a me dirlo. Ma
in Lombardia hanno ricoverato tutti, esaurendo ben presto i posti
letto. Il 60% dei casi confermati. Da noi, i medici di base e i Servizi d’igiene delle Asl hanno
fatto filtro: solo il 20%. Tenendo a casa i positivi asintomatici si è evitato
l’affollamento degli ospedali e la diffusione del contagio».
In Lombardia,
invece?
«Nessuno si è ricordato
la lezione della Sars. Che è stato un virus nosocomiale, così come lo è il
Covid-19. A diffusione ospedaliera. La scelta della Lombardia di trasferire i
malati dall’ospedale di Codogno, che era il primo focolaio, ad altre strutture
della regione, si è rivelata infelice».
Quanto?
«Molto. Perché ha
esportato il contagio, senza per altro che venisse monitorato subito il
personale medico. Hanno agito sull’onda emotiva. Tutti dentro. Invece dovevano
tenerne fuori il più possibile. Qualcuno non ha capito che questa non è
un’emergenza clinica e di assistenza ai malati, ma di sanità pubblica».
Ci spiega la
differenza?
«Un nuovo virus, nei
confronti del quale la popolazione è vergine, va affrontato in primo luogo con
le misure preventive, con l’isolamento, bloccando il contagio. Non con
l’automatismo Pronto soccorso-ricovero».
Una questione
culturale?
«Anche. Una forma
mentis. In Lombardia esiste da molti anni una sana competizione
pubblico-privato. Dove si evince la maggiore efficienza di ognuno? Dalle
persone accolte in Pronto soccorso. Ricoverando, si è voluto mostrare
efficienza in ambito clinico. Ma così non si è fatto alcun argine al virus».