Ascoli - “Se i miei nipoti diranno: «la riqualificazione di una parte della nostra città è stata fatta grazie a mio nonno», io sarò l'uomo più felice del mondo”. E' questo il messaggio lanciato da Battista Faraotti, presidente di Hub21, nel corso dell'incontro su “Ecosistemi dell'innovazione: il ruolo dei player digitali nella trasformazione dei territori”.
“Fare quattrini – dice Faraotti – si può fare investendo in tanti modi, ma questo progetto è stato pensato per far crescere il territorio, per rispondere alle nuove generazioni, per non fare andare via i cervelli, i nostri ragazzi, e addirittura attrarne di nuovi”. Un approccio etico che sta salvando la situazione di declino del Piceno, che dà una visione di futuro possibile.
Faraotti ha evidenziato il ruolo centrale della Fondazione della Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno che ha creduto nel progetto strategico del Polo scientifico tecnologico e culturale all'interno della riqualificazione dell'ex area Sgl Carbon con il progetto Ascoli21.
Ha ringraziato il presidente Vincenzo Marini Marini e l'organo d'indirizzo della Fondazione che hanno dato ad Hub21 lo stimolo per invertire la situazione di staticismo del territorio piceno per crescita di startup.
E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: con l'arrivo in città di Luca Scali, Ad di Hub21, designato dalla Fondazione Carisap su consiglio di Giuseppe Campanella e condiviso da Restart Srl, ora c'è un dinamismo progettuale che conta su 20 startup incubate, progetti di qualità premiati a livello nazionale, idee innovative che stanno prendendo corpo, sinergie con le università e le imprese di Marche e Abruzzo.
Tanto che Layla Pavone di “Digital Magics” nel suo intervento sull'open innovation dice che la strategia adottata dalla sua società di aprire sedi in molte parti d'Italia vede un vuoto nelle Marche proprio perché c'è Hub21, una realtà con la quale aprire una collaborazione importante.
Battista Faraotti, che si è preso un impegno in prima persona in Hub21, e Luca Scali stanno dando un'impronta al Polo scientifico tecnologico e culturale che percorre uno dei punti salienti espressi nella sua analisi da Luca De Biase de Il Sole24Ore. Il giornalista, che si occupa di innovazione, di fronte degli scenari dell'industria 4.0 si chiede se c'è un modo italiano, quello del made in Italy, di affrontare la rivoluzione 4.0.
La risposta è affermativa. Ci sono molti esempi, uno di questi è incarnato da Solair, una startup di Casalecchio di Reno che produce software, acquistata da Microsoft.
Hanno realizzato un software che è il modo italiano di rispondere all'automazione predittiva: far intervenire l'esperienza umana che, al contrario di un computer “sente il particolare rumorino che predice la rottura di una cinghia” e blocca l'automazione per consentire di anticipare il guasto.
E il modo italiano di “interferire” nella rivoluzione 4.0 per De Biase parte proprio dalla considerazione dell'uomo, dalla sua centralità nei processi industriali. Pare di rivivere la filosofia di Adriano Olivetti nei confronti della classe operaia, l'etica che muoveva il suo progetto complessivo. Bene, è con quei germi culturali che gli italiani stanno affrontando il nuovo scenario 4.0. Devono risolvere un unico problema legato alla storia: sapere fare rete.
L'innovazione è in tante province italiane. Milano non è come Londra, Seul o Tel Aviv che sono centri d'innovazione. In Italia l'innovazione è un corpo che si costruisce come un puzzle, regione per regione, provincia per provincia, di città in città.
E del modo italiano di fare impresa Enrico Bracalente, ideatore del brand NeroGiardini, è un esempio indiscusso. I suoi 230 milioni di fatturato li racconta ad un incontro sui player digitali partendo dall'inizio della sua storia, dal sottoscala di casa dove in origine venivano realizzate le calzature che la sua famiglia produceva per altri.
E Bracalente racconta anche, non senza emozione nelle sfumature della su voce, la svolta che fece trovare sull'orlo del fallimento la loro impresa per la perdita sul mercato americano di diversi miliardi di lire a causa di un fornitore che non pagò.
Fu il momento di una scelta vitale. Una scelta che l'ha diviso dai suoi fratelli che pensavano in modo diverso. Da allora in poi ha creduto che l'unica via da seguire fosse realizzare un marchio proprio sul quale puntare con la comunicazione.
Per riuscire in questo intento le altre due gambe del tavolo sul quale basare il progetto erano la formazione dei lavoratori e il made in Italy.
La centralità del made in Italy nel suo progetto industriale ha fatto escludere ad Enrico Bracalente la delocalizzazione della produzione in altre regioni del mondo, come hanno fatto in molti. Dunque come fa il contadino con il suo raccolto, che preserva una parte per la semina successiva, Bracalente ha continuato a redistribuire ricchezza tra i suoi collaboratori italiani, nel suo territorio d'origine, facendo crescere una nuova generazione di esperti nella realizzazione delle calzature.
Il futuro vede un'espansione europea e quindi una successiva internazionalizzazione globale sempre puntando sulla comunicazione dei suoi prodotti.