La perenne lotta tra dolore e ragione

La perenne lotta tra dolore e ragione

La via di fuga è l'alibi della bagarre politica

Non giustifichiamo nulla di quanto è accaduto, ma come voi conosciamo poco degli "zingari". Forse è un errore. Per capire occorrerebbe sempre conoscere, così per giudicare, attività per niente facile. C'è venuta voglia di approfondire e non è bello che solo un dramma così ci abbia stimolato a farlo. Spesso la pigrizia limita la dignità di ognuno di noi. Gli scritti di Nico Staiti ci aiuteranno a conoscere i Rom.

  Gli zingari in Italia: cultura e musica
di Nico Staiti

Con la parola “zingari”i si sogliono definire i lontani discendenti di popolazioni provenienti dal nord
dell’India, che intorno al Mille sono state spinte ad emigrare da quelle zone da problemi politici ed economici, e che in seguito si sono distribuite in diverse zone dell’Asia, dell’Europa, del nord-Africa e, successivamente, dell’America settentrionale e meridionale e dell’Oceania. Il romani - la lingua parlata dalla maggior parte dei gruppi zingari in innumerevoli varianti dialettali - è una lingua indiana, modificata da innesti di varia provenienza, nei quali si rinvengono le tracce dei percorsi seguiti da ciascuno di essi. Agli ambulanti indiani si sono variamente mescolati, fin dall’inizio del loro esodo e poi ancora in varie zone e in varie epoche, marginali e ambulanti di diversa origine e provenienza; tratti zingari e tratti allogeni si sono trasmessi tra gli uni e gli altri rendendo a volte indistinguibili i due insiemi. Elementi lessicali del romani sono entrati a far parte di vari gerghi locali, e parole di gergo di marginali e artigiani non zingari sono penetrati nel romani.
Il nomadismo, o anche il semplice ambulantato dei diversi gruppi in genere e normalmente (in periodi non critici, che costringono a spostamenti di ampio rilievo e di lungo periodo) si svolge ciclicamente su aree alquanto ristrette, all’interno di un territorio mappato per mercati, luoghi di ricovero, servizi di vario genere.
Dunque gruppi genericamente definibili come zingari in varie parti del mondo si sono mossi, si muovono, si sono fermati e si fermanoi in aree circoscritte, ove specializzano la propria cultura e le proprie attività in relazione all’ambiente circostante.
Ciascun gruppo ha elaborato orizzonti culturali, sistemi mitici e religiosi, abitudini di vita modellati in buona misura su quelli delle popolazioni presenti nell’area sulla quale insistono, sia pur salvaguardando delle specificità che consentono loro di non essere assorbiti da queste.

Gli zingari in Italia: rom, caminanti, sinti

In Italia attualmente sono presenti numerosi gruppi zingari, arrivati in epoche diverse, e seguendo percorsi differenti. La prima notizia certa della presenza di zingari in Italia risale al 1422: si tratta di un gruppo di un centinaio di persone, che sosta a Bologna e dice di essere diretto a Roma. Da allora in avanti è documentata la presenza in Italia di diverse comunità.
Quello di più antica presenza è il grande gruppo dei Rom dell’Italia centro-meridionale, arrivati verosimilmente da aree balcaniche via mare e insediatisi in Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Calabria fin dal XV sec. Il loro romani, fortemente influenzato dai dialetti regionali, oggi è quasi del tutto abbandonato in favore di questi: la lingua zingara sopravvive pressoché esclusivamente nella memoria degli anziani e nell’uso di alcune frasi con funzione di gergo.
Esercitavano le attività di fabbri e mercanti di equini. Fino agli anni successivi la seconda guerra mondiale durante la bella stagione giravano per i mercati con carrozzoni trainati da cavalli; svernavano vicino a qualche borgo, in stalle o fienili presi in affitto.
Adesso si sono tutti “fermati” in baraccopoli adiacenti le città o in quartieri di periferia; hanno macellerie equine, fanno gli sfasciacarrozze, i rottamai, lavorano il ferro e vendono i prodotti della loro attività (treppiedi, pale, zappe, pale da forno, ferri da calza, ferri per fare la pasta, scacciapensieri, azzarini) nei mercati rionali e di villaggio, chiedono l’elemosina.
Alcuni di essi praticano l’attività di usurai; in qualche caso sono legati al mondo della malavita non zingara, di cui conoscono il gergo e le norme di comportamento. Parecchie famiglie continuano a praticare un nomadismo stagionale: durante l’estate si spostano nelle grandi città del Nord, ove le donne chiedono l’elemosina e predicono la ventura e gli uomini vanno in giro con dei finti organetti di Barberia (carrettini tirati a mano e variamente decorati, all’interno dei quali è occultato un magnetofono a cassette).
Sono di religione cattolica; la loro partecipazione ad alcune feste religiose le influenza in maniera determinante: è il caso, ad esempio, della festa di S. Rocco a Torrepaduli, in provincia di Lecce, cui intervengono i Rom del Salento, e della festa dei SS. Cosma e Damiano a Riace (CZ), che vede la partecipazione dei Rom calabresi. In entrambi i casi la presenza degli zingari, simultanea a quella dei contadini, è sensibilmente diversa da questa: i contadini trascorrono la notte accampati in chiesa, seguono la processione cantando, suonano e danzano la tarantella solo in spazi e in momenti a margine della festa vera e propria; gli zingari si accampano in automobili, camion o furgoni, nei pressi del santuario.
A Riace precedono la processione danzando; a Torrepaduli, dopo la processione, si impadroniscono del sagrato dando vita per tutta la notte a delle “ronde” di “pizzica”.
Qui agli zingari (e, in misura minore, ad altri marginali e a gente di malavita) spetta prevalentemente il ruolo di danzatori, ai contadini quello di suonatori di tamburello e di armonica a bocca. La tarantella ballata a Torrepaduli in occasione della festa di S. Rocco è detta la “scherma”: due uomini si affrontano danzando, indice e medio della mano destra tesi a simulare la presenza di un coltello, e duellano fino a che uno dei due contendenti viene toccato per la terza volta dalle dita dell’avversario. Alcuni Rom salentini sostengono che la “scherma” viene “dalle Calabrie”. E in provincia di Reggio Calabria viene danzata una tarantella di questo genere, detta, anche lì, “scherma”, o “tarantella maffiusa”.
In Calabria non è tipica degli zingari, ma è danza di contadini e, soprattutto, di pastori e di gente di malavita. Come in Salento, i danzatori mettono in scena, con la “scherma”, la propria appartenenza ad un ambiente maschile in cui è elemento fondante la capacità di confronto virile di ogni individuo con altri individui appartenenti allo stesso gruppo.
Dei Rom del Salento che sono oggi gli interpreti principali della “scherma” locale è documentata la provenienza dalla Calabria, nel secolo scorso; è del tutto verosimile che siano stati loro ad importarla dalla provincia di Reggio in quella di Lecce. Gli zingari insomma hanno svolto ruolo di mediatori di tradizioni tra due diverse regioni dell’Italia meridionale, e interpretano, a Torrepaduli come a Riace, un ruolo diverso da quello degli altri partecipanti alla festa e ad esso complementare.
Si assiste insomma alla divisione di ruoli e di comportamenti tra zingari, contadini e pastori, che insieme e separatamente concorrono a formare un orizzonte culturale costituito da più componenti di diversa natura. I Caminanti siciliani, venditori ambulanti che, con bancarelle di semi di zucca, ceci abbrustoliti, torroni, palloncini girano per le feste patronali in Sicilia e risiedono per lo più a Noto in provincia di Siracusa, sono forse una casta di ambulanti e marginali autoctoni, nel cui linguaggio sono penetrati elementi gergali mutuati dal romani e che si sono variamente ibridati con gruppi zingari allogeni.
Un segmento recente della loro storia illustra bene i modelli di relazione e le forme di ibridazione tra gruppi diversi, anche di diversa origine: recentemente un matrimonio tra una ragazza appartenente al gruppo dei Caminanti e un Rom croato, di una famiglia residente da tempo a Milano, ha rafforzato i rapporti tra le due comunità, che dapprima si limitavano a condividere saltuariamente la città di Milano come luogo di migrazione stagionale. Questi rapporti in seguito sono stati consolidati da altri matrimoni, che hanno allargato il numero delle famiglie coinvolte in questi nuovi legami di parentela. La malattia e la lunga degenza ospedaliera di un Rom croato l’inverno scorso ha mosso parecchie famiglie di Caminanti dalla Sicilia, e ha determinato il sorgere di un grosso accampamento provvisorio nei pressi dell’ospedale, in cui convivono croati e siciliani.
I Rom croati residenti a Milano e i Caminanti ad essi imparentati, sebbene mantengano delle identità differenziate, hanno acquisito degli elementi culturali in comune: quelli perlomeno che derivano dalla sinergia delle due tradizioni applicata alla nuova esperienza condivisa. Il nuovo accampamento ospita ora quelli che si potrebbero definire, per certo verso, degli “zingari di Milano”, con una propria identità, diversa da quella dei gruppi d’origine.
I Sinti, che popolano l’Italia settentrionale (detti Sinti piemontesi, veneti o emiliani a seconda della regione in cui hanno soggiornato di più e di cui hanno fatto proprio il dialetto), sono verosimilmente arrivati in Italia a più riprese e in varie epoche dalla Francia e dai paesi di lingua tedesca, ove sono ancora massicciamente presenti. Parlano, oltre ai dialetti regionali, il sinto, che è uno dei dialetti romani. Le loro attività tradizionali sono la vendita e l’elemosina porta a porta, la fabbricazione e la vendita di piccoli oggetti d’artigianato (ad esempio fiori di carta e, recentemente, bottiglie di bibite rimodellate a caldo in forme allungate e contorte), i mestieri legati ai luna-park (giostre, tiro a segno, autoscontro ecc.) e ai circhi.
I loro costumi non differiscono in maniera sostanziale da quelli dell’altra gente che appartiene al mondo della piazza, dello spettacolo popolare, della marginalità urbana in Italia settentrionale. Molti di essi, in Italia come in Francia, in Austria, in Germania, sono di culto evangelico avventista; i Sinti veneti ed emiliani venerano S. Antonio, per la cui festa si recano in massa a Padova. Alcuni di essi - quelli che hanno mantenuto le attività di giostrai o circensi - sono nomadi; gli altri si sono “fermati” da 15/20 anni, col diminuire dei proventi delle occupazioni girovaghe e con la maggiore difficoltà di reperire aree autorizzate e attrezzate per la sosta temporanea.
Vivono per lo più in campi nomadi alle periferie delle città del Nord, in roulotte o in container. Sebbene spesso vi abitino da molti anni, hanno mantenuto in certa misura una forma di vita segnata dal viaggio, dall’abitudine allo spostamento: un campo di Sinti in genere si distingue da altri campi di zingari perché non vi sono state edificate baracche o altre strutture più o meno stabili. Vi si vedono di solito soltanto le roulotte e, accanto ad esse, l’automobile e pochi oggetti (uno stendibiancheria piegevole, qualche giocattolo dei bambini): come se, raccolte queste poche cose, si dovesse esser pronti a partire anche immediatamente.
Sono, o sono stati, professionisti dello spettacolo popolare: per l’attività circense, ma anche perché alcune famiglie localizzate in Alto Adige affiancano alle altre attività consuete dei Sinti quella di musicisti professionisti: con chitarra e violino eseguono repertori di varia origine e provenienza; la loro presenza marca l’estrema periferia, si potrebbe dire, della diffusione della tradizione musicale “tzigana” che ha il suo epicentro in Ungheria.
A questi gruppi di antica permanenza in Italia recentemente - nel corso del nostro secolo - se ne sono aggiunti degli altri: Rom provenienti dalla Slovenia, dalla Romania, dall’Ungheria, dalla Croazia, dalla Macedonia, dalla Bosnia, dal Kosovo, dal Montenegro, che si sono variamente distribuiti su tutto il territorio italiano, come in altri paesi dell’Europa occidentale.
L’immigrazione più recente - e forse numericamente più rilevante - è quella determinata dagli sconvolgimenti politici e dalla guerra nell’ex-Iugoslavia, che hanno condotto numerosi gruppi di zingari bosniaci e, soprattutto, kosovari a lasciare queste aree, in cui erano insediati da molto tempo. Al pari di quanto è avvenuto in Italia coi Sinti, i Caminanti, i Rom di antico insediamento, i Rom balcanici avevano fatto propri gli orizzonti culturali delle aree su cui hanno insistito per secoli, contribuendo in modo determinante alla loro definizione.
Come gli zingari italiani, gli zingari dell’ex-Iugoslavia sono divisi in una quantità di gruppi diversi per sistemi religiosi, dialetti, tradizioni, costumi, aree elettive di presenza. Le denominazioni relative alla religione di appartenenza - che nell’ex-Iugoslavia distinguono i due insiemi dei cristiano-ortodossi e dei musulmani - denunciano in maniera particolarmente evidente la contiguità di due distinti insiemi di zingari a una cultura diversa dalla propria ma - ad un tempo - il loro distinguersi dalle altre popolazioni che vivono nella medesima zona e afferiscono al medesimo orizzonte culturale. “Dassikhané” (che è il nome dei cristiano-ortodossi) significa infatti, nel romani dei musulmani del Kosovo e del Montenegro, “al modo dei Serbi”, mentre “Khorakhané” (che è il nome dei musulmani) “al modo del Corano”, cioè dell’Islam. I costumi e i riferimenti culturali dei Dassikhané sono, pur con una loro specificità, riferibili a quelli delle popolazioni serbe; quelli dei musulmani sono fortemente segnati dall’influenza islamica e in specie dalla cultura turca).
Svolgono, gli uni e gli altri, attività musicale professionale: nei Balcani le orchestre che offrono i loro servigi per occasioni di festa pubbliche e private sono per lo più formate da zingari.

Una tradizione continuamente rinnovata

Gli zingari tutti insomma sono, all’interno di comunità più vaste, delle quali hanno acquisito gli orizzonti culturali, un gruppo con una forte identità sociale, che si distingue dal resto delle comunità per l’uso della lingua (che affianca ma non sostituisce del tutto quella locale) e, in parte, per le attività professionali e per quello che potremmo definire le modalità di interpretazione delle tradizioni locali o, forse meglio, per il particolare ruolo da essi assolto nella società variegata e stratificata di cui sono parte. Sono di regola (o sono stati fino a tempi recenti), dappertutto, allevatori e mercanti di equini, fabbri (poi ferrivecchi e sfasciacarrozze), mendicanti, musicisti, danzatori, giocolieri, ammaestratori di cavalli, giostrai, gente di circo.
Definiscono se stessi, in prima istanza, per differenziazione da altri gruppi sociali: sono, forse soprattutto, non contadini: dunque non legati alla terra, al padrone, al ciclo delle stagioni, alla sedentarietà. Il ruolo giocato nella definizione dell’identità dalla diversa matrice etnica è senza dubbio storicamente rilevante ai fini della determinazione della collocazione attuale degli zingari all’interno della società più ampia in cui vivono e agiscono, e con cui variamente interagiscono; questa non sembra tuttavia al presente che una delle componenti, e non tra le più evidenti, della loro identità, quale viene percepita da loro stessi e da chi li circonda.
I Rom slavi, sebbene in larga parte non nomadi, hanno tradizionalmente esercitato, come altri gruppi zingari, attività non legate alla terra, a volte a carattere ambulante: il che spiega peraltro perché l’esodo verso Occidente di popolazioni serbe, bosniache, albanesi a seguito della guerra nell’ex-Iugoslavia abbia a grande maggioranza interessato gente Rom, con un’intensità tale da ricordare quel che dovette avvenire quando la guerra e la fame, intorno al Mille, spinsero i gruppi “zingari” del nord dell’India, anche allora, a disperdersi verso Occidente.
Questi non-contadini, e in parte, forse in passato più che oggi, ambulanti, mercanti di cavalli, commercianti, calderai, e musicisti, saltimbanchi si sono specializzati come interpreti professionali o semi-professionali delle tradizioni locali. Tradizioni locali, ovviamente, dei paesi in cui hanno soggiornato più a lungo: i Rom bosniaci e kosovari, occorre sottolinearlo, in Italia oggi sono, nella loro percezione del mondo che li circonda come nella percezione che questo mondo ha di loro, doppiamente stranieri: perché slavi e perché zingari. Il processo di appropriazione di elementi di cultura locale e di ibridazione dei propri costumi con quelli del nuovo paese di residenza è appena iniziato; di questo si proverà, nelle pagine che seguono, a dar conto.
I Rom più che un’etnia, suddivisibile in sub-etnie, sono - sia pure in parte in ragione di una differenza etnica - una casta di artigiani e di marginali, e di interpreti specializzati delle tradizioni - siano esse turche, albanesi, serbe, macedoni o altro ancora - e di diffusori di cultura: il che, peraltro, può evocare una continuità tra quelle famiglie di fabbri e saltimbanchi di casta bassa fuggite dall’India nel medioevo e gli attuali gruppi di zingari europei e medio-orientali.
I Rom, peraltro, hanno contribuito in maniera rilevante alla formazione dell’attuale patrimonio culturale delle regioni in cui vivono, o quantomeno della sua componente di derivazione islamica, in specie per quanto riguarda la musica: per la loro provenienza da Oriente e per aver esercitato l’attività musicale professionale in tutte le zone soggette alla dominazione turca.
Questi interpreti specializzati di tradizioni - e soprattutto di tradizioni musicali – sono stati responsabili, in misura rilevante, dell’importazione in Europa occidentale di strumenti e forme musicali di provenienza islamica che hanno contribuito in modo determinante alla formazione dei linguaggi musicali dell’Europa occidentale moderna.
È evidente indizio dell’attuale vitalità del ruolo culturale dei Rom il continuo rinnovarsi degli strumenti della loro tradizione, e la pronta diffusione che hanno, in seno alla comunità, certi prodotti della più moderna tecnologia: telefoni cellulari, videoregistratori, antenne satellitari sono i nuovi strumenti di un’antica oralità; del pari, saxofono, batteria, tastiere elettroniche hanno sostituito pressocché totalmente le surle e i daouli, gli oboi e i tamburi bipelli della cui diffusione nei Balcani pure i Rom erano stati artefici.
Più volte, quando mi è capitato di vedere, presso qualche famiglia residente in Italia, la videoregistrazione di una festa fatta a casa di qualche parente rimasto in Iugoslavia, in cui le danze fossero accompagnate, appunto, da surle e daouli, mi è stato detto con sprezzante ironia che si trattava di una festa di contadini, seppure sapessimo bene, loro e io, che si trattava invece di Rom, e loro parenti: ché è roba vecchia, da gente restia al cambiamento e ignorante delle cose del mondo quali sono, appunto, i contadini.
Gli strumenti musicali di recente introduzione, poi, rispetto alla fisarmonica entrata in voga presumibilmente, come in tutto il mondo popolare, all’inizio del Novecento, rappresentano una restaurazione della tradizione, e una coerente evoluzione dei suoi linguaggi, non uno stravolgimento di essa: la possibilità di costruire sulle tastiere elettroniche scale diverse dai modi maggiore e minore (e spesso i musicisti Khorakhané che vivono in Italia vanno in Tunisia a comprare strumenti, già impostati sul sistema dei maqam, costruiti dalle grandi industrie giapponesi per il mercato arabo) consente di suonare sui modi tradizionali; il glissato che si può ottenere col variatore manuale delle altezze permette di imitare le oscillazioni d’intonazione regolate sulla surla dalle labbra del suonatore, peraltro su un’estensione assai più ampia di quella consentita dal vecchio strumento (del quale il nuovo conserva talvolta il nome: mi è capitato più volte di sentir definire surla un sintetizzatore Casio o Yamaha), esasperandone anzi le peculiarità di linguaggio. Le membrane tesissime di due piccoli timpani della batteria imitano alla perfezione il suono del darabouk, il tamburo a clessidra che ancor oggi, in alcuni casi, viene utilizzato come sostituto portatile della batteria.
Il comodo manuale della tastiera, le bacchette e le elastiche e robuste membrane sintetiche della batteria, il sistema di chiavi del saxofono, i mixer, i microfoni, gli amplificatori consentono una velocità di fraseggio e una nitidezza di esecuzione, un volume e un equilibrio tra le diverse voci dell’orchestra prima irraggiungibili, che arricchiscono e rinnovano il linguaggio di tradizione in maniera anche assai evidente.
Del linguaggio di tradizione però si mantengono i caratteri fondamentali (modi, strutture ritmiche, fraseggio, formularità del repertorio, materiali melodici, relazione tra strutture fisse e improvvisazione); si mantiene, soprattutto, la tradizionale disponibilità all’innovazione, all’ibridazione di forme e materiali che è sempre stata caratteristica distintiva dei Rom, soprattutto in un mondo sostanzialmente agro-pastorale, tendenzialmente conservativo.
I Rom, oggi, continuano ad assolvere il ruolo di mediatori e diffusori di cultura in ragione del quale, secoli addietro, avevano importato da sud e da oriente surle, daouli, darabouk, tamburelli, liuti a manico lungo nei Balcani, o avevano contribuito alla diffusione tra i contadini dell’Europa orientale dell’uso del violino. Oggi l’uso di questi strumenti, pur ricordato e ancora praticato, è “da contadini”: le tastiere prendono il posto degli oboi, proprio perché i Rom continuano ad essere uguali a se stessi e fedeli al proprio ruolo.
In questo dunque, cioè nelle modalità di interpretazione e nel ruolo di divulgatori e conservatori delle tradizioni va individuata la specificità dei Rom, assai più che nell’esistenza di tradizioni appartenenti in maniera esclusiva ad essi: e l’unica, rilevante eccezione della lingua sembra ribadire, più che negare, questo particolare ruolo di casta di marginali e, al tempo stesso, di portatori di cultura all’interno di una società più vasta.

Canti e cerimonie domestiche

Un discorso a parte merita la musica domestica, suonata da musicisti non professionisti, in occasione di feste ed eventi rituali o parti di essi che non richiedono l’intervento di un’orchestra professionale. Pare verosimile, anche se una ricerca in questa direzione è ancora tutta da svolgere, che questi repertori siano quantomeno in parte meno legati alla cultura musicale locale, e abbiano invece una più marcata identità zingara.
Questo sembra vero, ad esempio, per l’abitudine, diffusa presso i Rom kosovari, di intercalare il testo di canti composti da formule stereotipe e da versi improvvisati sul momento e intonati su modelli melodici di vasta diffusione con sillabe non-sense, che svolgono la funzione di interludio, per così dire, strumentale al canto: per la quale, piuttosto che nelle tradizioni musicali del Kosovo, si possono forse cercare elementi di confronto nella mouth-music dei Rom Vlach ungheresi, in cui questo elemento informa di sé l’intera struttura dei brani cantati.
Il tamburello è assai diffuso soprattutto presso i Rom musulmani di Kosovo, Montenegro, Macedonia come strumento di accompagnamento di canti e cerimonie domestici, in particolare di un genere di canzoni a ballo detto talavà, praticato soprattutto, in ambito domestico, dalle donne, o, professionalmente, da cantori e suonatori omosessuali; non è mai utilizzato nelle orchestre professionali maschili. In queste zone l’uso del tamburello è condiviso da zingari e gagé; altrove (in Serbia, in Bosnia, in certe zone della Grecia) sembra invece essere prerogativa esclusiva dei Rom. Il tamburello, in Medio Oriente e in tutta l’area del Mediterraneo, è legato alle divinità femminili, ai riti estatici femminili, alle inversioni sessuali praticate in occasioni rituali, nelle quali gli uomini si trasformano simbolicamente in donna suonando lo strumento, che è rappresentazione del ventre e dell’imene femminili (rispettivamente la parte interna, che è una cavità, e la superficie percossa). Presso i Rom musulmani di Kosovo e Montenegro la connotazione sessuale del tamburello è avvertita con particolare forza.
Una donna, alla quale chiesi una volta se il tamburello lo suonano solo le donne o anche gli uomini, mi rispose: “lo suonano solo le donne; sì, lo suonano anche gli uomini, [ride] se suonano il tamburello vuol dire che sono buliasci (omosessuali).
E gli uomini, quando suonano il tamburello, sono più bravi delle donne, molto bravi. E mio fratello anche suona il tamburello, ed è un uomo, non è in quel modo. Ha imparato da piccolo, gli piaceva sempre, gli piaceva, sempre lo prendeva e suonava, e tanti sanno suonare, e non sono a metà”. In questo discorso, l’apparente contraddizione di frasi di opposto significato e l’uso evidente della paratassi tendono manifestamente a concentrare su un unico piano di comunicazione elementi che appartengono ai contesti rituali di uso dello strumento e al suo ruolo simbolico ed elementi che appartengono all’esperienza concreta: il tamburello è strumento femminile, che deve essere suonato dalle donne, e il fatto che venga utilizzato anche dagli uomini va sottolineato, marcando l’inversione sessuale implicita in quest’azione.
Inoltre, vi si è accennato, esiste un particolare genere musicale di canti accompagnati da questo strumento, detto talavà, i cui interpreti specializzati sono omosessuali, il quale ruolo sociale presso i Khorakhané è in genere quello di cantori e suonatori professionisti di tamburello. Nei riti nuziali il suono del tamburello marca tutte le parti della cerimonia di cui è protagonista la sposa: scandisce il ritmo del pianto rituale all’abbandono dell’abitazione paterna, e diviene suo attributo per tutta la durata della cerimonia. Ancora, nel corso della prima danza all’aperto, iniziata dalle donne di famiglia, la sposa brandisce un tamburello cerimoniale, dipinto di rosso e ornato di fiori e fronde, che non viene suonato, ma verrà utilizzato dopo la consumazione del matrimonio per contenere le lenzuola macchiate di sangue, che, avvolte in un drappo rosso, in esso verranno portate in corteo danzante nel villaggio dalle donne della famiglia dello sposo.
Dopo verrà riposto col suo contenuto in fondo al baule del corredo, e non potrà più essere mostrato in pubblico: ché sarebbe come esibire le parti intime della sposa, poiché lo strumento “è”, ormai, il ventre fecondato della ragazza.
Alla fecondità alludono peraltro numerosi altri elementi simbolici presenti nelle nozze. Agli occhi dei Khorakhané, appare evidente il nesso tra la fecondità della terra e quella della sposa novella, ciascuna delle quali rimanda all’altra in modo diretto e immediato: il pane, si dice, durante la festa di nozze viene spezzato e mangiato danzando perché il grano cresca alto e, come il grano cresce dalla terra, così la sposa abbia molti figli. Il nesso, vitale e consapevole, tra rito nuziale e festa stagionale, tra il matrimonio che unisce due persone e, per il loro tramite, due famiglie e lo hieros gamos pubblicamente celebrato nel corso di cerimonie sacre che garantiscono la fecondazione della terra e il raccolto, dunque il rapporto tra rito e mito, è assai presente alla consapevolezza della comunità (e in special modo, naturalmente, di alcuni interpreti specializzati); i complessi apparati simbolici presenti nelle cerimonie nuziali non sono residui opachi di un passato ormai osservabile solo attraverso brandelli e relitti di un mondo una volta più organico, trascinati passivamente attraverso la storia, ma elementi coerenti di una vicenda ben radicata nel presente. 
I Rom, per preservare se stessi dall’annullamento attraverso l’omologazione, hanno mantenuto il ruolo, che era loro proprio fin dalle più lontane vicende indiane, di artefici, custodi e interpreti specializzati della cultura delle società in cui vivono, nelle quali la trasmissione del sapere oltre i confini, geografici e sociali, del proprio orizzonte e la sua elaborazione avviene di norma per il tramite, appunto, degli zingari o di altre caste specializzate di ambulanti e marginali: soldati, mercanti, imbonitori, carrettieri, suonatori di piazza. Lo studio delle tradizioni dei Rom, non ultime quelle musicali, in vasta parte ancora da compiere, appare uno dei nodi ineludibili delle vicende culturali dell’Europa moderna e dell’area del Mediterraneo.
L’alta consapevolezza che i Rom di Kosovo e Montenegro oggi largamente presenti in Italia e in altri paesi dell’Europa occidentale hanno della funzione dei simboli presenti nel rito mi sembra fatto assai rilevante: che gente che definisce la propria identità a partire dalle somiglianze e dalle differenze con gli altri - e che individua in prima istanza la propria specificità rispetto ai gagi nel non essere di cultura contadina - si preoccupi della crescita del grano, e che proprio questa gente metta in relazione la coltivazione dei cereali con la fecondità della sposa è cosa singolare: e non trova spiegazione coerente e attendibile se non proprio nel ruolo di interpreti specializzati di cultura svolto dai Rom all’interno di più ampie comunità. Il controllo del ciclo di coltivazione dei cereali è suddiviso per competenze: ai contadini spetta di attendere alle operazioni di semina e mietitura, ai Rom di garantire il successo di queste operazioni mantenendo viva la consapevolezza della relazione tra le nozze di due esseri umani e le nozze dell’uomo con la terra, eseguendo la danza del pane e tramandandone il senso rituale.

I campi di Palermo

Le feste nuziali, al pari di altri riti pubblici e privati, oggi vengono messi in scena dai Rom provenienti dalla ex-Iugoslavia nelle nostre città, all’interno dei campi nomadi o in sale affittate. Nella maggior parte dei casi la loro visibilità all’esterno della comunità è quasi nulla e, del pari, l’influenza di elementi “italiani” sulla messa in scena del rito è sostanzialmente irrilevante: questi gruppi di Rom sono regolarmente e massicciamente presenti in Italia da troppo poco tempo perché la loro capacità di farsi mediatori di cultura possa aver maturato dei frutti rilevanti.
Una particolare forma di sincretismo religioso, tuttavia, sembra preludere a più ampie interazioni tra i Rom e le culture locali in Italia: si tratta delle relazioni che, in Italia, una festa che già in Iugoslavia apparteneva alla tradizione sia dei Rom cristiano-ortodossi che di quelli musulmani trova con alcuni culti religiosi locali: soprattutto, ma non solo, a Palermo, con quello tributato dalla città a santa Rosalia. A Palermo vi sono attualmente due grossi insediamenti di Rom: il campo della Favorita, situato al margine del parco della Favorita, alle falde del monte Pellegrino, che domina il paesaggio, e il campo di via Messina Marine, collocato tra la strada e la spiaggia, in quella periferia indistinta che collega i villaggi costieri ad est di Palermo ormai inghiottiti dalla città, ad una estremità del golfo chiuso, dall’altro lato, dal monte Pellegrino.
Recentemente alcune famiglie hanno abbandonato i campi in favore di alloggi presi in affitto nella parte più degradata del centro storico, nei quartieri della Vucciria e della Kalsa, ove condividono i cortili su cui si affacciano le abitazioni con i vecchi abitanti del luogo, e con immigrati senegalesi e nordafricani. Altre sono andate ad abitare in alloggi popolari messi a disposizione dall’Amministrazione comunale a Bagheria. Il campo della Favorita è popolato da famiglie di Rom musulmani provenienti pressoché esclusivamente da Kosovska Mitrovica, in Kosovo. Le abitazioni sono delle baracche rettangolari, ad un piano solo, in mattoni di tufo, coperte da lamiera ondulata.
Davanti alle case sono state costruite delle verande coperte e recintate da steccati di legno. A queste abitazioni si affiancano in molti casi delle roulotte, a volte incorporate nella costruzione in muratura. Nel complesso si tratta della realizzazione in forma compiuta delle strutture abitative che i Rom appartenenti a questo gruppo tentano di edificare, in genere con scarso successo, in ogni campo loro assegnato. Di solito la costruzione delle baracche viene osteggiata dalle amministrazioni locali, che ne decretano la demolizione perché contravvengono ai regolamenti edilizi, in quanto edificate senza i necessari permessi, o perché i materiali e le tecniche impiegati non rispondono alle normative di sicurezza vigenti. Questa opposizione, spesso condotta con estremo rigore, sembra avere lo scopo reale di impedire la sedentarizzazione di gruppi che, già sedentari nei territori di provenienza, tendono ad insediarsi più o meno stabilmente negli spazi loro concessi.
L’Amministrazione comunale di Palermo, al contrario di quanto suole avvenire altrove, per far fronte all’emergenza delle necessità abitative di questa comunità ha messo a disposizione dei Rom dei mattoni di tufo, del cemento, della lamiera ondulata, lasciando loro il compito di costruire le abitazioni. Il risultato è che sul terreno loro concesso i Rom hanno costruito un piccolo villaggio su modello di quelli del Kosovo, disponendo e occupando le casette secondo criteri che riflettono e consentono di meglio articolare le relazioni tra le diverse famiglie. In un angolo del campo una grande baracca è stata adibita a moschea.
La preghiera e l’osservanza dei riti religiosi, in altre città d’Italia spesso praticate assai blandamente o per nulla, qui rivestono grande importanza nella vita individuale e sociale. La maggior parte degli uomini frequenta regolarmente la moschea e osserva i digiuni prescritti; molti sono dervisci e prendono parte ai riti propri del sufismo che seguono i due digiuni del Ramadan e del Matem, nel corso dei quali attraverso la musica, la danza e l’iperventilazione alcuni di loro raggiungono uno stato di coscienza alterata, in cui si realizza l’abbandono mistico che è segnale del cammino verso la santità: ne è prova l’ostentata insensibilità corporea, dimostrata in modo clamoroso dall’indifferenza al dolore raggiunta al culmine della cerimonia; essi pertanto si attraversano le guance, i lobi delle orecchie, il grasso sottocutaneo dell’addome, i muscoli pettorali con dei lunghi spilloni di metallo, manifestando la vittoria dello spirito nel cimento con il corpo, con i sensi e con la ragione.
Al rito, nella forma cui ho assistito nella primavera del ’97, alla fine del digiuno del Matem, segue un lungo canto epico a voce sola, in cui si narra, in un romani infarcito di parole arabe e spesso non comprensibile dagli stessi Rom estranei alla tariqqa, dell’origine mitica del sufismo, che nasce con l’adozione di Alì da parte di Muhammad. Il campo di via Messina Marine è popolato da Rom di un gruppo diverso da quello che popola la Favorita: Cergari, sia musulmani che cristiano-ortodossi, provenienti dalla Bosnia, dal Kosovo, dal Montenegro.
Dal campo sono quasi del tutto assenti le roulotte. Le abitazioni sono le tipiche casette dei Cergari, su palafitte, con tetto spiovente a una o due acque, costruite con legno e materiali di risulta. L’esito, anche in questo caso, è la piena realizzazione di quello che di solito in altri campi di Cergari distribuiti sul territorio italiano si trova in abbozzo: un denso e grande villaggio, fittamente popolato, diviso in una zona principale, che affaccia su un grande spiazzo oblungo, e una dépendance, separata dal nucleo centrale da un muro preesistente la collocazione in sito del campo e riutilizzato dai Rom per dividere nuclei familiari separati da diverse relazioni parentali.
La particolare struttura dei campi, una relazione col territorio - e con le istituzioni locali - meno antagonistica che in altri luoghi sembra abbiano prodotto in queste comunità due tendenze opposte e concomitanti.
Da una parte, ciò ha determinato una strutturazione delle comunità più salda e articolata di quanto non avvenga altrove: costumi e abitudini delle regioni di provenienza qui vengono reistituiti con maggior forza di quanto non sia avvenuto altrove, e la particolare attenzione dedicata ai riti religiosi ne è un segno evidente. D’altra parte, una possibilità di comunicazione con la popolazione locale maggiore che in altre parti d’Italia - i Rom condividono con i siciliani certe modalità espressive, che si potrebbero definire genericamente “mediterranee” soprattutto nella gestualità, che non appartengono di certo alle grandi città dell’Italia settentrionale - e certe generiche affinità ambientali, fanno sì che a Palermo questa gente si senta “a casa propria” più che altrove.
Ne deriva una tendenza a costruire relazioni più intense e meno conflittuali con l’ambiente esterno al campo e una maggiore penetrazione nella comunità di elementi di cultura locale. Rom e gagé, certo, sono visibilmente diversi tra loro, non soltanto in Italia, ma anche in Kosovo, in Montenegro, in Bosnia. In Italia però i Rom sono anche stranieri; la distanza tra loro e gli altri e la diffidenza reciproca ne risultano sensibilmente accresciute.
A Palermo - come pure, ad esempio, a Napoli, e in Italia meridionale in genere - distanza e diffidenza sembrano più temperate. Il segno più evidente di questa migliore collocazione nell’ambiente, per chi abbia consuetudine con le abitudini dei Rom in Italia, è la maggior libertà di movimento concessa alle ragazze nubili. Queste, di regola, non escono dal campo se non per attività necessarie: la scuola, l’elemosina, l’acquisto di generi alimentari, e in genere vengono accompagnate e riprese da un parente di sesso maschile.
Lamentano di frequente questa limitazione della loro libertà di movimento, che, dicono, è assai più forte di quanto non lo fosse nelle regioni di provenienza, ove la loro frequentazione delle città e dei borghi non era soggetta a tante interdizioni. A Palermo pure queste interdizioni sono palesemente molto meno forti che altrove: è frequentissimo vedere sciami di ragazzine tra i dodici e i diciotto o vent’anni dirigersi dal campo, vestite a festa, verso il centro della città, ove vanno a far passeggiate, piccoli acquisti, o si recano al luna-park.
Questo diverso, più disteso rapporto con l’ambiente ha probabilmente contribuito pure ad accentuare la tendenza sincretica che è già propria, ab origine, degli zingari: fatta propria una zona, stabilite delle relazioni dinamiche con la cultura locale, tendono ad impadronirsi delle tradizioni del posto, e a diventarne degli interpreti qualificati.
Ciò a Palermo ha potuto favorire la genesi dei fenomeni di sincretismo religioso con culti locali, dei quali la devozione dei Rom - sia musulmani che cristiano-ortodossi - a santa Rosalia è quello di maggiore evidenza e rilevanza. Le comunità di Khorakhané Shiptari e di Cergari Khorakhané e Dassikhané presenti a Palermo sono state verosimilmente uno dei motori primi dei più vasti fenomeni di sincretismo religioso che coinvolgono, in maniera sempre più estesa, gli altri Rom Shiptari e Cergari presenti in Italia.
I Cergari di via Messina Marine vendono per le strade di Palermo delle immagini di padre Pio da Pietralcina, come, dappertutto, capita che offrano alla gente all’uscita della chiesa immaginette della Madonna o di vari santi cattolici, senza tributare loro alcun culto, ma solo per incentivare nei fedeli il morso della pietà cristiana.
I Cergari di Palermo, invece, affiggono ai muri delle loro abitazioni o tengono nel portafogli le stesse immagini di padre Pio che vendono ai gagé. Il 6 maggio i Rom slavi celebrano la festa chiamata, in serbo-croato, di Dzurdzedan (letteralmente: “giorno di Giorgio”, che è il giorno in cui la chiesa cristiano-ortodossa festeggia S. Giorgio), o, in romani, di Herdelesi, dalla parola turca Hidirellez, che deriva dall’arabo e significa “verde”. Herdelesi è, dicono i Rom, “la festa in cui si ammazzano i bambini”: in cui, cioè, si sgozzano delle pecore, col cui sangue il padre tinge la fronte ai propri figli, giacché le pecore vengono uccise in luogo dei bambini: la qual cosa, in una forma di pensiero di tipo magico, corrisponde ad una reale uccisione dei bambini, benché attuata solo in forma simbolica. Il rito drammatizza - e i Rom ne sono consapevoli - il sacrificio del figlio Isacco da parte di Abramo. I bambini prima dell’alba del giorno successivo il sacrificio vengono riportati a nuova vita mediante l’immersione in una tinozza d’acqua in cui siano stati gettati dei petali di fiori e, eventualmente, dei lumini galleggianti. Il giorno di Herdelesi le case vengono ornate da fronde d’albero prese, di regola, da un monte consacrato ad una divinità.
Questa struttura di base del rito, con diverse varianti, aggiunte e interpolazioni, viene messa in scena dai Rom di Serbia, Bosnia, Herzegovina, Kosovo, Montenegro, Macedonia. In Italia la festa di Herdelesi, celebrata nei campi nomadi e negli accampamenti di Rom slavi, si limita in genere alla scarna cerimonia dell’uccisione della pecora e dell’abluzione descritta sopra. A Palermo la festa di Herdelesi assume una rilevanza molto maggiore; il giorno della festa giungono in città parecchie famiglie di Rom provenienti dalle altre città della Sicilia e da altri campi anche assai distanti (per lo più da Napoli, Firenze, Bologna, ma anche dalla Francia, dal Belgio, dalla Germania). La festa dura tre giorni e il rito si articola in una serie di fasi distinte tra loro, non sempre e non tutte presenti nelle celebrazioni che hanno luogo in altre città d’Italia.
Una parte rilevante delle cerimonie ha luogo sul monte Pellegrino, all’interno del santuario di santa Rosalia e nei boschi che lo circondano. Il 6 maggio ogni capofamiglia accompagna in automobile i bambini della propria famiglia al santuario al cui interno si trova la grotta che ospita il simulacro di santa Rosalia. Le gocce d’acqua che stillano dalle pareti della grotta sono canalizzate da un complesso sistema di canalette di zinco, che confluiscono in una vasca di pietra. A questa, o a una fontana antistante il santuario, i bambini attingono l’acqua sacra, di cui riempiono bottiglie e taniche. Quindi si recano nei boschi circostanti, ove, aiutati dagli adulti, tagliano fronde d’albero (per lo più di eucalipto, ma anche arbusti di ginestra o di ferula), con i quali si coprono le automobili. Delle foglie vengono anche inserite nell’imboccatura delle bottiglie e delle taniche.
Le vetture, così agghindate, iniziano alla spicciolata la discesa verso il campo, suonando il clacson a distesa. All’arrivo al campo uomini, donne e bambini staccano le fronde dalle automobili, e ne decorano l’esterno delle abitazioni. La sera alcune famiglie iniziano a scannare le pecore, acquistate da pastori nei giorni precedenti. Ogni famiglia, se ne ha i mezzi economici, scanna almeno una pecora per ogni bambino.
Il padre intinge un dito nel sangue che scorre per terra e ne tinge la fronte dei propri figli. L’uccisione dell’animale avviene ad opera di alcuni uomini specializzati, che prestano i propri servigi a più famiglie. Prima dell’alba del giorno seguente vengono accesi dei grandi fuochi, si scannano altri animali, e vengono svegliati i bambini, che le donne di casa lavano in tinozze riempite dell’acqua prelevata al santuario, cosparsa di petali di fiori (di solito di rosa).
Dopo, i bambini vengono vestiti a festa e ogni famiglia davanti a casa propria danza al suono di musica diffusa in genere dall’impianto stereofonico delle automobili, e gli adulti bevono birra. Tutti fanno il giro delle case dei vicini, scambiandosi gli auguri. Il giorno successivo tutte le famiglie si recano a monte Pellegrino, ove si accampano nei boschi a ridosso del santuario. Qui arrivano anche i Rom provenienti da fuori Palermo.
La partecipazione delle famiglie residenti in Sicilia (Messina, Paternò, Siracusa, Mazara) e nel sud della Calabria è pressoché totale; da più distante, molto meno. Sebbene il culto a santa Rosalia sia noto a tutti i Cergashi e Khorakhané Shiptari presenti in Italia con cui abbia avuto modo di parlarne (e persino ai Rom macedoni residenti a Varna, vicino Bressanone, in provincia di Bolzano) la loro partecipazione alla festa palermitana è sporadica e irregolare: dipende soprattutto dalle relazioni che ciascuna famiglia anno per anno nel periodo della festa intrattiene con famiglie che vivono in Sicilia. Sono presenti in maniera più regolare Rom provenienti da Lecce, che hanno rapporti di parentela e di comparatico con i campi di Messina e Reggio Calabria, da Firenze e da Bologna, che sono invece legati da analoghe relazioni coi campi di Paternò, Siracusa e Palermo.
Ciascuna famiglia stende nel bosco dei tappeti, su cui dispone cuscini e imbandisce un banchetto con cibo portato da casa e con carne di pecora macellata e arrostita sul posto. Tra gli alberi si tendono delle corde su cui si allestiscono con coperte delle culle ad amaca per i bambini più piccoli; ciascuna famiglia accende un fuoco su cui si cuociono allo spiedo le ultime pecore, scannate sul posto. Ogni nucleo ha la propria musica, fornita di solito dai mangianastri delle vetture parcheggiate sotto gli alberi, vicino agli accampamenti. Qua e là, però, vengono allestite delle postazioni musicali ad uso collettivo, con musica eseguita direttamente da musicisti, i cui strumenti vengono elettrificati e amplificati con l’ausilio di generatori elettrici, o con degli impianti di amplificazione di grandi dimensioni che diffondono musica registrata su cassette audio.
Nel corso della giornata le diverse famiglie si recano al santuario, entrano nella grotta, si bagnano con l’acqua sacra e si accovacciano in preghiera davanti al simulacro della Santa, alla quale offrono anche soldi e oro. Alcuni portano in chiesa pecore, per bagnarle con l’acqua benedetta prima del sacrificio. Indi escono dal santuario camminando all’indietro, baciano gli stipiti del cancello posto all’ingresso della grotta e tornano ai fuochi nei boschi. Prima del tramonto la festa finisce, e ciascuna famiglia fa ritorno alla propria abitazione. Il giorno successivo i Cergari preparano, ciascuno a casa propria, dei banchetti, con la carne avanzata dalla festa e altri cibi cucinati per l’occasione. Gruppi di famiglie legate da rapporti di parentela o di comparatico fanno il giro delle abitazioni, fermandosi a mangiare e a bere in ciascuna di esse. In ogni casa viene preparato un pane, che contiene, occultata al suo interno, una banconota da 10.000 lire. Gli uomini la strappano, e uno di essi troverà, nel suo pezzo di pane, l’auspicio di abbondanza.

Santa Rosalia e le sette sorelle

Le ragioni del culto di Rosalia da parte dei Rom musulmani e cristiano-ortodossi vanno cercate, da una parte, nelle qualità della figura della Santa, che le consentono di assumere, agli occhi degli zingari slavi come a quelli di altre comunità straniere di altra religione, il ruolo di grande divinità sincretica, e dall’altra nella capacità dei Rom di inglobare in un sistema mitico aperto e flessibile il culto di Rosalia. Il 15 luglio del 1624, durante un’epidemia di peste, venivano ritrovati in una grotta del romitaggio di monte Pellegrino dei resti organici, in cui si vollero riconoscere le reliquie della santa vergine ed eremita Rosalia.
Il culto della Santa era attestato già dal Trecento, ma è verosimile che “prima del 1624 fosse ancora marginale in città e legato pressocché esclusivamente alla sacralità del luogo (Monte Pellegrino)”. La devozione popolare, dopo il ritrovamento delle spoglie, associò il progressivo scemare dell’epidemia all’intervento soprannaturale di Rosalia. Il riconoscimento da parte delle istituzioni ecclesiastiche seguì di poco il favore popolare: il 22 febbraio del 1625 venne pubblicamente riconosciuta l’autenticità delle reliquie. Dal 1625, e, con alterne vicende, fino ai nostri giorni, la città di Palermo in occasione dell’anniversario del rinvenimento delle reliquie dedica ogni anno un festino alla sua Santa patrona. Il luogo del ritrovamento delle spoglie di santa Rosalia era legato, già prima del 1624, a pratiche rituali e culti religiosi.
Monte Pellegrino è stato sede di un culto punico, verosimilmente dedicato ad una divinità della fertilità, Tanit, e vi sono tracce riconoscibili di culti cristiani almeno fin dal VII secolo.
I culti di diversa epoca e origine legati al monte e alla grotta furono assorbiti dalla religione cristiana e trovarono organizzazione in ambito eremitico. Sono state messe in luce analogie tra questa vicenda e altri culti di divinità femminili che hanno sede su un monte sacro.
Queste analogie, in qualche caso, vanno oltre i generici nessi tipologici che interessano ogni culto di una “montagna cosmica”, come luogo che ha il suo modello nella volta celeste, e della divinità che risiede su questa montagna, come antropomorfizzazione di un corpo astrale. In particolare, le vicende relative al culto della Madonna di Montevergine, nell’avellinese, presentano notevoli analogie con la tradizione relativa a santa Rosalia, fino a coinvolgere, si vedrà, elementi del sistema religioso dei Rom: cosicché, sorprendentemente, la capacità degli zingari slavi di farsi elaboratori di tradizioni e mediatori di cultura arriva a rinsaldare i legami tra segmenti della storia religiosa di luoghi diversi e distanti dell’Italia meridionale.
Il santuario alla Madonna di Montevergine fu costruito, nel XII sec., da san Guglielmo, in un luogo in cui verosimilmente già esistevano antichi culti della “montagna sacra” e in cui nell’VIII sec. san Vitaliano aveva già fondato un tempio dedicato alla Vergine.