Si tratta di lavoratori che hanno perso il proprio posto di lavoro e imprenditori in gravissime difficoltà economiche.
Disoccupazione, impossibilità di accesso al credito, mancanza di liquidità, pagamenti a lunghissimo termine, scarsità d’investimenti e soprattutto l’assenza di qualunque prospettiva per il futuro sono alcune tra le cause principali della disperazione. Alla drammaticità dell’attuale situazione economica, apparentemente senza una chiara e immediata via di uscita, si contrappone ogni giorno in misura sempre maggiore un senso di sfiducia collettivo. L’angoscia di tantissimi cittadini rimane soffocata all’interno delle mura domestiche, spesso accompagnata dalla depressione o dalla rabbia che esplode verso se stessi e verso gli altri.
La frustrazione a livello sociale deriva principalmente dalla sensazione d’impotenza a fronte di quella che viene proposta alla popolazione, da parte di molti politici, economisti e mezzi di informazione, come l’unica soluzione possibile per l’uscita dalla crisi: una ricetta economica fatta di tasse, tagli ed aumenti delle tariffe. Pena l’incremento del deficit - ora incostituzionale - e l’aumento del debito pubblico che, nonostante le manovre di austerità e gli enormi sacrifici imposti agli italiani, continua a crescere a ritmi record. È chiaro che all’interno di questo sistema di vincoli europei, costituiti dalla moneta unica e dai vari trattati firmati, sembra apparentemente non esserci altra via di uscita. Eppure professori ed economisti italiani del calibro di Paolo Savona, Giulio Sapelli, Emiliano Brancaccio, Loretta Napoleoni e di fama internazionale, come i due premi nobel per l’economia Paul Krugman e Joseph Stiglitz, si sono schierati apertamente contro queste politiche di austerità, deflattive e recessive. L’impostazione dettata dai vincoli di bilancio e dalle logiche di rigore sta alimentando una spirale negativa che porta a un’ulteriore contrazione del PIL, facendo così diminuire il gettito fiscale, aumentando i rischi di solvibilità sul piano internazionale, accrescendo l’esborso per interessi, diminuendo la capacità di spesa per gli investimenti necessari a stimolare l’economia. Tutto ciò a detrimento di quelle risorse finanziare pubbliche che sono indispensabili anche per fornire servizi sociali e assistenziali primari.
Nel quadro normativo europeo attuale, taluni vedrebbero come possibile strada per abbattere il debito pubblico, la vendita delle partecipazioni statali nelle poche grandi aziende italiane rimaste (Finmeccanica, Enel, Eni,…). Questo in realtà comporterebbe un duplice rischio: da un lato favorire pochi grandi speculatori privati a caccia di rendite e dall’altro vedere i flussi finanziari derivanti dalla vendita prendere la strada delle tasche degli investitori stranieri, i quali detengono direttamente circa il 44% del debito pubblico italiano ed esigono annualmente il pagamento di circa 37 miliardi di euro di interessi. Ma poi quale sarebbe il beneficio per lo sviluppo del Paese derivante da ulteriori privatizzazioni? Come sarebbero reinvestiti i proventi delle vendite dei beni pubblici? Chi potrebbe garantire che non sia solo una manovra “una tantum” che ben lungi dal rilanciare l’economia ci renderebbe a posteriori (come collettività) ancora più poveri? La “sbornia” delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni avviate nel 1992 ha condotto a degli utili e dei benefici per l’economia nazionale quasi insignificanti. È dato storico incontrovertibile invece, che da allora è cominciato un lento e progressivo declino industriale ed occupazionale del Paese. Un declino oramai certificato dalle statistiche ufficiali che vedono l’Italia in recessione economica.
Altri vorrebbero utilizzare il patrimonio della Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. per pagare i debiti dello Stato, come dire: lo strumento che a suon d’investimenti dovrebbe servire per lo sviluppo strategico del Paese, utilizzato come cassa per la spesa corrente.
I risultati elettorali delle ultime votazioni amministrative ben rappresentano il malessere che serpeggia a livello sociale: sfiducia che si manifesta in un alto tasso di astensione; rabbia che ha condotto a un vero e proprio tracollo dei maggiori partiti a sostegno del governo Monti; vittoria dei movimenti di protesta come quello a cinque stelle di Beppe Grillo. La forte disapprovazione per le politiche di austerità, che in diversa misura toccano tutti gli Stati europei, non ha risparmiato neppure Francia e Grecia, dove i partiti al governo hanno subito pesantissime sconfitte in termini di consensi e voti, a tutto vantaggio di forze politiche estremiste. Infine, anche chi ha sostenuto maggiormente misure di rigore e austerità a livello europeo ha subito duri e forti contraccolpi: nelle recenti elezioni regionali, il movimento dei cristiano democratici nel Land del Nord Reno Westfalia ha incassato il peggior risultato elettorale dal 1947. Una cocente sconfitta per il partito guida al governo tedesco che ben indica l’apprezzamento per le politiche economiche della cancelliera Merkel.
Inquietanti similitudini.
A rendere ancor più drammatica la situazione italiana, nelle ultime settimane si sono aggiunti alcuni tragici attentati, farneticanti rivendicazioni e incomprensibili moventi. Dopo che per mesi gli scontri tra frange estremiste del movimento NO TAV e polizia avevano alzato la tensione sociale. "Non possiamo escludere un ritorno alla strategia stragista", ha affermato il Capo dello Stato Napolitano. Tutto questo riporta alla memoria un annus horribilis, il 1992, quando l’Italia vide una successione di eventi tragici ed incalzanti che cambiarono per sempre la storia del nostro Paese. Quello che oggi stiamo vivendo ha similitudini inquietanti con quella stagione che portò all’avvio dell’operazione Mani Pulite; alle stragi di Capaci e via D’Amelio; all’attacco speculativo contro la lira da parte del finanziere George Soros e alla conseguente uscita della lira dallo SME; alla crisi finanziaria che condusse il governo Amato a varare una manovra da 100.000 miliardi delle vecchie lire. Un’escalation di eventi che probabilmente servì a piegare ogni volontà politica del Parlamento italiano di allora e portare così alla ratifica del trattato di Maastricht, senza alcuna esitazione. Ciò che spinse l’allora ministro del tesoro a porre in modo incondizionato quella firma fu la sfiducia negli italiani, i quali dovevano essere guidati da una “elite” che mettesse il bene comune sopra tutto, anche a scapito delle regole della democrazia parlamentare. Parlando di Guido Carli, Paolo Savona scrive:<<so per certo che egli avesse perso fiducia nella capacità degli italiani di sapersi dare comportamenti coerenti con le necessità del nuovo quadro geopolitico e geoeconomico e, pertanto, fosse necessario rinforzare il "vincolo esterno">>. Il vincolo esterno. Carli cercò ed ottenne un aiuto dall’esterno del Paese per imporre all’Italia quella politica di rigore di bilancio che da ministro del tesoro non era riuscito a far accettare. Affinché si potesse così “innestare l’economia di mercato, nel tessuto vivente, nelle fibre della società e introdurla nella mentalità della classe dirigente”. Tentativo questo che egli più volte fallì nei decenni, anche nel ruolo di presidente di Confindustria. Affinché si potesse così liberare l’economia italiana dagli aiuti di Stato e dai “lacci e lacciuoli” della burocrazia.
Quest’aiuto alla fine arrivò dalla firma del trattato dell’unione europea, politica, economica e monetaria. La classe politica di allora veniva giudicata debole, screditata, senza forza ed autorità morale per far accettare sacrifici agli elettori. Occorreva un vincolo esterno; quindi per sua natura limitativo, restrittivo. La ferma convinzione e la tenacia con cui il “partito liberista trasversale” perseguì l’adesione al Trattato di Maastricht, dovrebbe quantomeno far riflettere anche i più accaniti europeisti sulle reali finalità dell’unione europea e sulla reale democraticità dei processi economici e sociali che già allora venivano programmati. Un’unione pensata come vincolo esterno. Lo stesso che fu imposto agli italiani anche nel dopoguerra affinché il Paese non prendesse una “deriva statalista”, così come le forze liberali volevano. Cosicché per l’ennesima volta nella Storia italiana si fece ricorso alla “chiamata dello straniero”, affinché gli interessi di una parte del Paese o di un’elite con una ben precisa visione del mondo, un’ideologia, divenissero elementi costitutivi dell’ordinamento giuridico.
Gli italiani che non si sanno governare, gli italiani che necessitano di una “guida”, gli italiani non responsabilizzati nelle tante scelte strategiche del Paese e che nel corso della Storia troppo spesso non hanno goduto neppure della fiducia della propria classe dirigente. Gli italiani “consegnati nelle mani di elite illuminate”. Gli italiani che, forse proprio per queste ragioni, non sono mai stati davvero indipendenti e liberi all’interno della propria nazione. Non dovremmo sorprenderci più di tanto quindi, se oggi ci scopriamo “etero diretti”, poco autonomi e dunque incapaci di uscire dalle maglie di questa crisi. Non abbiamo più gli strumenti per farlo, gli strumenti sono “altrove” e per il momento non vengono utilizzati a nostro favore. A testimonianza si possono citare le parole del professor Giuseppe Guarino:<< Nel campo normativo l’Unione [Europea n.d.a.] è assolutamente prevalente. La sua competenza è esclusiva in materie fondamentali. Le sue norme prevalgono su quelle degli Stati membri. La sfera dell’Unione si allarga (e corrispondentemente si restringe l’ambito normativo degli Stati) man mano che le competenze vengono concretamente esercitate. La competenza dell’Unione è esclusiva persino nel valutare se sussistono le condizioni per estendere le sue competenze. Una domanda: gli Stati che ci stanno a fare? I dati statistici ci dicono che in Italia nei nove anni dal 2000 al 2008 (per il 2008 analizzati solo i primi tre trimestri) gli atti nazionali con forza di legge sono stati 1.072; i regolamenti e le direttive comunitarie 20.976. >>
Un dovere morale
La stessa sfiducia verso la popolazione è presente anche in gran parte dell’attuale classe politica, la stessa che ha introdotto il pareggio di bilancio in Costituzione e che sta per ratificare il trattato ESM, nel silenzio più assoluto della politica e degli organi d’informazione. Il responsabile economia e lavoro del PD, Stefano Fassina, si è spinto ad affermare che il pareggio di bilancio è uno strumento economicamente sbagliato, ma politicamente corretto (sic!) per riacquistare la fiducia dell’Europa. Per Fassina non c’è futuro al di fuori dell’unione europea, la finanza e l’economia globale schiacciano gli Stati e di fronte a Paesi come la Cina, l’India, il Brasile,… non ha più senso parlare di sovranità nazionale: è la resa completa della politica di fronte alla globalizzazione. Ma non è unicamente nel numero di abitanti che va ricercato il senso di una sovranità nazionale, come Fassina da buon materialista vorrebbe far credere, ma innanzitutto nella cultura di una popolazione. È necessario tornare ad avere fiducia nella cultura e nelle capacità degli italiani: questo più che un compito è un dovere morale della politica! C’è stato un periodo della Storia recente in cui l’Italia aveva qualcosa da dire al mondo e l’economia cresceva come in nessun’altra nazione. Bisogna avere quella fiducia che è mancata a Guido Carli e a molti altri negli ultimi anni, pensando che si può ripartire, ricostruendo un tessuto sociale ed una economia solida. La storia italiana del dopoguerra dovrebbe darci l’esempio, il caso argentino potrebbe guidarci nella giusta direzione. L’economia argentina, abbandonato il cambio fisso con il dollaro e le ricette di austerità imposte per decenni dall’FMI, dal 2002 al 2011 ha visto crescere la sua economia del 94% e tutt’ora vanta una crescita del PIL annuale attorno all’8%.
L’Italia oggi è in bilico, tra una strada di lenta agonia e una possibilità di riscatto, faticosa ma possibile. Come oramai da anni Lyndon LaRouche sostiene: è necessario tornare alla separazione bancaria tra banche commerciali e banche d’affari, secondo il modello Glass-Steagall. Concetto questo ripreso e promosso sempre più anche da voci autorevoli del mondo politico ed accademico. È necessario pensare ad una banca nazionale per lo sviluppo, che finanzi progetti a lungo termine nelle infrastrutture e nell’industria ad alta tecnologia, sullo stile di quella creata dal primo ministro del tesoro americano Alexander Hamilton. È necessario investire in ricerca ed in solidarietà. È necessario riscoprire la vera cultura e puntare sulle nuove generazioni affinché siano loro i primi a beneficiarne.
Spetta a noi decidere se siamo ancora l’Italia del Rinascimento o solo quella del neo-darwinismo sociale. Solamente se la politica italiana saprà scommettere sul futuro ed imboccare la strada verso nuova crescita e migliore sviluppo, ci potrà essere una vera svolta. Solo quando saprà credere di nuovo nella cultura e nella forza dell’Italia, riacquisterà dignità e rispetto.
Non vi è altra scelta, è passaggio obbligato.