Quarant'anni fa il Sessantotto

Quarant'anni fa il Sessantotto

«E con altri giovani volevo rovesciare il mondo per portare il cielo in terra»

Il problema, in effetti, è proprio come quel pezzo di storia viene evocato. Il sessantotto comincia nel 1965. Erano passati appena vent’anni dalla fine della seconda guerra mondiale e sul mondo si affacciava una generazione d’adolescenti che stavano diventando adulti e che avevano alcune caratteristiche comuni: erano tanti, tantissimi, dato che l’immediato dopo guerra aveva prodotto un’impennata di nascite dall’Italia, dagli Stati Unisti fino all’Urss; erano cresciuti in un universo nel quale il benessere era il valore supremo e dove nessuno metteva in dubbio la fede in un progresso senza limiti.
Comunque sia, è un fatto che con il sessantotto l’Italia sotterra definitivamente la sua struttura e la sua cultura di paese contadino per assumere comportamenti, assetto sociale e costumi sintonizzati sulla lunghezza d’onda propria di un neocapitalismo al tramonto, cioè sempre più costretto a disintegrare, per le proprie necessità di sopravvivenza, la società che domina.
La notizia veramente esaltante proveniva dal Vietnam. Al capodanno lunare gli americani avevano rotto la tregua. La risposta era stata la più formidabile offensiva delle forze di liberazione indocinesi dopo Dien Bien Phu; in Israele una piccola minoranza di giovani condannava il sionismo e faceva appello alla classe operaia; a Caen, gli operai francesi, affiancati dagli studenti, si battevano per ore, contro la polizia gollista; in Perù, in occasione del processo a Blanco, Gadea, Bejar e ai dirigenti contadini Cartolin e Molina, si ripetevano dimostrazioni di massa e la firma di Sartre apriva un appello internazionale per la loro liberazione; a Orangeburg, negli Stati Uniti, gli studenti neri si ribellavano alla discriminazione e alla repressione: quattro erano uccisi, ma ripartiva la lotta generale degli afro-americani che sarebbe culminata qualche mese dopo, nella risposta all’uccisione di Martin Luter King; in Polonia in risposta al nuovo arresto di Kuron e Modzelevsky, gli studenti invadevano le strade inneggiando al “vero socialismo”; a Praga i carri armati sovietici soffocano l’esperienza della “Primavera cecoslovacca”. I fatti cecoslovacchi hanno quasi un senso simbolico: nel momento in cui le piazze dell’Europa occidentale si riempiono di giovani che reclamano la rivoluzione, una grave crisi lacera l’area dei Paesi che si reclamano socialisti. Una frattura drammatica si viene così a creare tra “il movimento” e le direzioni storiche del proletariato.
Il Maggio ’68 è nato in Francia, all’università di Nanterre. Nasce come movimento antifascista, antiautoritario, internazionalista. All’inizio nessuno pensa che, di lì a poche settimane, in solidarietà con gli studenti si muoveranno milioni d’operai, i quali, occuperanno le fabbriche. Nessuno pensa che da Nenterre il movimento percorrerà l’Europa e si sincronizzerà con altri movimenti di lotta i più diversi, dai giovani jugoslavi alle Guardie rosse di Pechino, dai ghetti neri americani agli operai dei Paesi Baschi, nessuno pensa che quel moto universitario è destinato a segnare tutto il decennio successivo.
In Italia le fiumane di persone che percorrono le strade delle maggiori città, riproducono lo spaccato sociale nazionale quasi al completo e quindi una pluralità d’interessi e di fini su cui il comune entusiasmo fa velo senza cancellarli. La piazza tuttavia esprime soltanto il momento più esteriore del fenomeno: dappertutto ormai si tenta di liquidare antiche partite con l’iniziativa spontanea, dal basso, destinata a surrogare sin dove è possibile decenni d’inerzia riformistica. Il ciclone non risparmia niente e nessuno, entra perfino nelle più tradizionali cittadelle del potere: i giornali, i tribunali, gli uffici pubblici e privati, ai baroni dell’università, la scuola nel suo insieme, ed entra perfino in quel tradizionale monolito sociale che è la famiglia borghese che non di rado si spacca, denunciando la fragilità di certo suo “cemento”, sotto gli improvvisi colpi del maglio contestativo. In breve, un’intera Italia si sbriciola all’impatto con questa mareggiata: è l’Italia fatiscente delle stratificazioni mai rimosse, è l’Italia dei più vistosi ritardi sul terreno dell’evoluzione democratica, è l’Italia del “codice Rocco”, un potere ultracentralizzato e arrogante fino ai limiti del grottesco, di una stampa fatta di compiacenze, di veline e d’intollerabili limitazioni alla libertà d’espressione, è l’Italia di tutti gli abusi e di tutte le ruberie mai perseguite, e così via.
La rivendicazione dell’autonomia ha una collocazione centrale nel processo sessantottesco, né tale autonomia appare un valore scindibile nelle sua valenze soggettive e obiettive, vale a dire come indipendenza del singolo e come indipendenza del territorio, di una città, di un quartiere, di un’istituzione o di una funzione. Chiede autonomia il giornalista, il magistrato, l’insegnante, come la piccola o la grande comunità. E tale “autonomia” viene, in effetti, strappata, sia pure con risultati non sempre positivi, soprattutto quando essa si traduce in ulteriore fuga corporativa da parte di taluni gruppi o categorie. 
Se
condo Time, "il '68 fu un rasoio che separò il passato dal futuro". Vero? Vero. Ma, solo nel senso che il '68 fu l'anno cruciale ed emblematico di un gigantesco processo di modernizzazione, le quali prime avvisaglie risalivano agli inizi degli anni '60, e il quale compimento si ebbe (se mai vi fu) solo molto tempo dopo.
Ripensare il '68 a quant’anni di distanza, non significa solo ripensare fatti e parole di un anno irripetibile. Significa interrogarsi a fondo su un sommovimento di portata più ampia, con l'ambizione di contribuire a spiegare l'Italia d'oggi nei suoi tratti essenziali: classe dirigente, ceti produttivi, idee e valori dominanti. Ma sbaglia chi ritiene di poter addebitare al '68, e ad esso solo, ritardi e tragedie degli anni Settanta. Se una lezione il '68 ha impartito ai propri eroi e alle proprie vittime, se un'eredità ha lasciato, questa è soprattutto l'aspirazione personale e collettiva alla libertà, l'insofferenza verso ogni rigida predeterminazione dei destini, la critica d'ogni gerarchia non legittimata dalla competenza o almeno dall'impegno, non esclusi (quando occorre) l'irriverenza o lo sberleffo.
Di questi umori la società italiana è tuttora intrisa, e ad essi deve una parte non piccola della vitalità. Ecco perché ha senso, nel 2008, riandare al nocciolo del '68.

 

LA SOCIETA’ BORGHESE E LA  SINISTRA NON CAPIRONO

Il Movimento Studentesco non era fatto per sistemarsi facilmente nella politica e nei partiti, neanche in quelli di sinistra, benché fosse senz'altro di sinistra. Erano le sue stesse originalità a tenerlo alla larga. Un movimento legato a una generazione e non a una condizione sociale; che raccoglieva la partecipazione attiva o la simpatia della maggioranza di quella generazione; che per la prima volta nella storia sostituiva ai riti comunitari riservati ai giovani maschi (il servizio militare, le successive "classi di ferro", la goliardia) una comunità, difettosa quanto si vuole, di ragazze e ragazzi; e che insomma pretendeva di vivere a modo suo e fare da sé.
I partiti erano adulti, maschi, e senescenti (lo sono ancora oggi). Il PCI non riusciva a immaginare altro rapporto fra movimenti e partito se non quello greve e addomesticato del sindacato e della cinghia di trasmissione, o del "fiancheggiamento". Non a caso, ancora nelle prime occupazioni del '67, la rivendicazione di un "sindacato degli studenti" era il cuore della proposta dei leader giovanili più legati alla vecchia politica universitaria. Quest'ultima, poi, era il teatrino in cui si facevano per la politica adulta, con attori spesso attempati, maestri d’inghippi assembleari e congressuali, fortemente indisposti a compromettere una carriera nel caos del Movimento, ancor più fortemente imbarazzati a spiegarsi da dove caspita fosse scaturito. La diffidenza verso i partiti, e sostanzialmente verso il PCI (che bocca grande che aveva!) era dunque, fra gli studenti, naturale. In più, contava che gli esponenti più seguiti e ascoltati del Movimento erano, persone un po' più "anziane", le quali, avevano alle spalle un curriculum più o meno nutrito nella politica ereticale di sinistra, marxista o anarchica o liberale o cattolica, e un'avversione ai partiti e anche a quelli di sinistra.
Il Movimento Studentesco apparve loro come una grande conferma, anzi insperata, e una grand’occasione. La grand’occasione alla quale, da qualche anno, si stavano preparando. Aspettando s'intende, gli operai. Ancora un po', e sarebbero arrivati anche loro.

IN NOME DI DIO COMINCIO' COSI'

Il '68 cattolico segue un decennio in cui l'istituzione-simbolo della sacralità, la Chiesa cattolica, si rimette in questione con un generale processo d’aggiornamento. Il "paradigma del cambio" si costituisce come dimensione della Chiesa, per la prima volta della controriforma. Benché gli esiti del Concilio convocato da Giovanni XXXIII siano equilibrati, provocano allarmi e reazioni in quanti identificano la tradizione con l'immobilismo e la Chiesa come l'acquasantiera dell'ordine pubblico borghese: "La Chiesa non deve muoversi" spiega un maestro della borghesia laica italiana, Mario Missiroli, in pieno '68. "Se si muovesse, non sapremmo dove trovarla". E' noto che la storia della Chiesa, come quella d’ogni religione, è più l'avventura delle sue eresie che l'evoluzione della sua ortodossia.
La prova generale del '68 inizia nella Chiesa subito dopo la fine della guerra con i segni di un dissenso e di un bisogno di rinnovamento comunitario che anticipa motivi critici successivi, ma forse con più equilibrio e maggiore profondità spirituale. Tensioni e differenziazioni attraversano la Chiesa di Pio XII, solo apparentemente monolitica: a Genova alcuni cattolici, raccolti intorno a Nando Fabbro, fondano nel '46 Il Gallo, per far risuonare in una Chiesa suscita dalla guerra impenitente e trionfalista l'eco della misericordia evangelica. A Milano padre Camillo Da Piaz e padre Davide Maria Turoldo animano la Corsia dei Servi, centro di riflessione sulle condizioni per un rinnovamento della Chiesa e della civiltà. Si leggono Maritain, Mounier, i teologi del Nouvelle teologie, si segue l'esperienza dei preti operai e si traduce la pastorale d'Emanuel Suhard, arcivescovo di Parigi, Essor ou déclin de l'Églis. E' l'esilio per padre Turoldo, dopo che ha scosso la borghesia milanese dal pulpito del Duomo: il S. Ufficio non accetta che a ridosso della vittoria del 18 aprile '48 si contesti una linea ufficiale ancorata alla riproduzione del regime di cristianità mediante il controllo del potere politico e l'impiego dell'apparato cattolico in tutto il suo fervore attivistico.
L'identificazione tra Occidente e valori cristiani, tra Chiesa e blocco politico filoamericano è scardinata a Firenze dai Convegni per la pace di Giorgio La Pira, un contravveleno vivo delle discriminazioni ideologiche sostenute dalla scomunica anticomunista del '49. Firenze è un laboratorio di spiritualità e rinnovamento politico, sul filo di un utopismo che ricalca il sogno della civilizzazione cristiana, anche se fuori delle rozze crociate ideologiche vigenti.
A Trento il Duomo è occupato da un controquaresimale. A Milano l'Università Cattolica è occupata dagli studenti, prima scintilla di un sapere riappropriato alla base che incendierà la foresta istituzionale. A Torino nasce la comunità del Vandalino, a Genova il movimento dei Camillini e poi la comunità di Oregina, intorno a padre Agostino Zerbinati. A Udine appaiono I quattro gatti e a Napoli Il tetto guidato da Pasquale Colella. A Verona dei giovani francescani del convento di San Bernardino contestano in nome di San Francesco le logiche mondane del loro Ordine.
Quando Paolo VI firma l'Humanae vitae, vietando ai cattolici la "pillola" il dissenso assume le proporzioni di un fenomeno di massa: un dissenso più per diffidenza questa volta che per critica. Il linguaggio gerarchico si allontana dal linguaggio cattolico diffuso. Nel settembre '68 dei ragazzi occupano la cattedrale di Parma per denunciare i finanziamenti delle banche alla Chiesa. Il Papa li sconfessa: "Manifestazioni anarchiche di contestazione globale" dice all'udienza generale. L'isolotto di don Mazzi trasmette solidarietà agli occupati, interviene il cardinale di Firenze, Ermenegildo Florit, ponendo al parroco il dilemma: o ritrattare o dimettersi. Mazzi resiste e celebra ugualmente l'eucarestia. Parte un ciclo di contestazione ecclesiale contrassegnata da un ant'istituzionalismo esasperato e dalla ricezione "politica" del Concilio, dunque da una riproduzione sotto altra forma dell'integralismo. Nello stesso periodo nasce, sulle ceneri di Gioventù studentesca, Comunione e liberazione, come ipotesi di risposta "totale" alla secolarizzazione.
Nell'uno e nell'altro versante, riappare il fantasma che aveva turbato le avanguardie cristiane postbelliche, quello di una Chiesa che si fa Stato. I semi di una sconfitta sono già impliciti nella rottura che il "nuovo dissenso" realizza rispetto all'antico che era più teologico ed ecclesiale: "Non è stata questione di repressione ma di carenza di significatività religiosa" diceva lo storico Antonio Acerbi, e con lui si trovava d'accordo il memorialista più vicino al dissenso, Mario Cominetti: "L'errore fu d'aver preteso di liquidare il mondo cattolico attraverso un'azione e un cambiamento politico, sottovalutando l'importanza dei valori religiosi per grandi masse".
Ci penserà il '68 "laico" a fare ciò che il dissenso cattolico non poteva, cioè a spiazzare i linguaggi da "nuova cristianità" e i riformismi ecclesiocentrici per sollecitare la Chiesa, anche a costo di un certo periodo selvaggio, a ripensare la propria identità in un mondo in forte trasformazione. Mentre sui sagrati europei si celebrano liturgie alternative e si contestano i cardinali, un piccolo prete indio in Perù, Gustavo Gutierrez, finisce di scrivere un libro che avrà un seguito: La teologia della liberazione. E a Medellin, in Colombia, i vescovi latinoamericani decidono di rompere le Sante Alleanze per scegliere i poveri. La vera riforma della Chiesa, fallita in Italia e in Europa, arriva dal sud.
Quanto a leggere nel '68 solamente l'humus della violenza, bisogna aver dimenticato tutto o quasi di quel periodo. Il femminismo, la critica dell'autoritarismo, i consigli di fabbrica, le 150 ore… ecc. Ci sarebbero stati divorzio e legalizzazione dell'aborto senza il Sessantotto? E se si, con quanti anni di ritardo?
Io fui sessantottino militante all'Università di Milano (ero studente lavoratore; lavoravo nella più importante Casa editrice d'Italia). E con altri giovani volevo rovesciare il mondo per portare il cielo in terra. Spero che altri, i quali, hanno più di sessantacinque anni, e c'erano dicano qualcosa in difesa di quegli anni indimenticabili, prima che qualche altra iniziativa culturale (si fa per dire), sotterri la verità. Fermiamo l’ondata del risentimento tardivo e dall’analisi spiccia. Le anime candide che oggi se la prendono con il ’68, ragionano come se in mezzo non ci fossero 40 anni di colpevole gestione politica del Paese. La realtà è che il ’68 fu in tutto il mondo, una grande rivolta contro l’autoritarismo dei padri, degli insegnanti, dei baroni, dei padroni, dei maschi, del clero. Da noi, fu molto di più e durò più a lungo perché esplose in una società ferma e riluttante al cambiamento. La generazione, che oggi va di moda rimproverare, si trovò investita del mandato di modernizzare un paese ingessato. Lo fece con la forza dell’entusiasmo e gli errori dell’inesperienza. Nessuno, com’è successo altrove, seppe in seguito raccogliere e indirizzare quella passione. Per tradurla in buona politica. Le anime candide non avevano paura di noi ma di quello che rappresentavamo. E quello che noi rappresentavamo era la libertà. Tutti parlano di libertà, ma quando vedono un individuo veramente libero hanno paura.   

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