A volte le parole fanno più male delle botte

A volte le parole fanno più male delle botte

«Chi ce l’ha più avuta, eccezion fatta del presidente Federici, la “mentalità del posto fisso”? »

Insomma, la crisi industriale che coinvolge il piceno è determinata essenzialmente da fattori soggettivi e legislativi; dal versante degli industriali e degli imprenditori (beneficiari, tra l’altro della riduzione del cuneo fiscale e dalla recente approvazione alla Camera del pacchetto sul welfare scaturito dagli accordi di luglio del 2007) non emergono particolari responsabilità, piuttosto si registrano sempre più preoccupanti danni per la mancata diffusione della “cultura d’impresa” tra i giovani. Questi ultimi, oltre a dover apprendere il valore del lavoro (magari attraverso lo stimolo ecclesiastico dell’ora et labora), devono ormai rassegnarsi ad abbandonare la “mentalità del posto fisso”. Ciò perché, a detta del Presidente Federici, la volontà (e il sacrosanto diritto) di vivere senza la paura di non riuscire ad arrivare con lo stipendio a fine mese, oppure di arrivarci volta per volta come nella ricerca di un terno al lotto, risultano questioni puramente “mentali”.
Mi chiedo anzitutto se il contratto lavorativo del presidente sia a tempo determinato oppure no; se una volta terminato un incarico il presidente debba ricorrere alla consulenza di qualche Agenzia interinale; insomma, se questa “mentalità” del lavoro flessibile rappresenti oltre che nelle parole anche nei fatti lo stile di vita del presidente, oppure se sia prerogativa esclusiva dei giovani d’oggi. Certo, “flessibilità” non è per forza sinonimo di “precarietà”; cosa si intende allora per buona “flessibilità” (quella che non si confonde con la precarietà, o che almeno formalmente non ne è sinonimo)? Mettiamo che mi trovo a lavorare presso un’azienda e che non sono un assenteista; mettiamo che non ho un contratto a tempo indeterminato (poiché sarebbe un posto fisso, con la relativa “mentalità” da posto fisso che vogliamo invece escludere), bensì uno di quelli che si rinnovano tre mesi per tre mesi (quindi mi risulta anche un po’ difficile essere assenteista, tolti ovviamente una malattia o un incidente, che non dovrebbero – scrivo dovrebbero – risultare compresi nella categoria dell’assenteismo). Svolgo delle mansioni scritte su un contratto e per questo recepisco uno stipendio. Sono “flessibile”? Ancora no, semplicemente faccio il mio lavoro. Tuttavia i tempi, i ritmi dell’azienda sono elevati, il personale è quello che è (in un’azienda il personale deve essere sempre quello che è: se non si arriva con il lavoro ciò vuol dire che il reparto o l’ufficio sono organizzati male; se il lavoro è poco vuol dire invece che il personale è in esubero, quindi nuovamente che c’è scarsa razionalità e che qualcuno deve essere mandato a casa) e gli imprevisti accadono di frequente. Ad esempio sono costretto spesso a fare degli straordinari che vanno ad erodere il mio tempo privato, ma con pazienza cerco di conciliare entrambe le cose. Poi succede che il mio mansionario è scritto nero su bianco, ma che però, sempre all’occorrenza, debba trovarmi a svolgere delle attività “extra”, dovute magari all’assenza di qualche collega (evento traumatico per l’azienda, ma come si è prima detto il personale è quello che è, né troppo né troppo poco, e si tratta soltanto di organizzare le cose in altra maniera). Faccio presente che l’assenza di un collega non è un problema che riguarda me bensì l’azienda, e che le mansioni che devo svolgere e per le quali vengo pagato sono scritte nero su bianco? Meglio di no, e poi mi si risponderebbe che l’azienda è come una grande famiglia, che il bene dell’azienda è anche il mio bene, che bisogna essere flessibili nei momenti di difficoltà, eccetera. Assolutamente, comunque, non dovrei insistere, perché mi si direbbe che rischia di venire meno il rapporto di fiducia e … Di rivolgermi al sindacato neppure se ne parla considerando il tipo di contratto che mi ritrovo. Insomma, arrivo a fare un po’ di tutto, alla faccia del mio mansionario. La situazione si fa critica quando disgraziatamente mi capita un incidente. Nulla di grave per fortuna, una frattura a un braccio che però mi costringe a restare a casa (non posso svolgere le mie variegate mansioni con un braccio ingessato). L’azienda non lo dice, però ce l’ha un po’ con me, quasi che l’incidente me lo sia procurato apposta per non andare al lavoro. Torno dopo un paio di settimane, riprendo normalmente il mio lavoro in attesa del rinnovo del contratto. Se ciò avverrà non voglio dirlo, lascio aperte entrambe le opzioni: potrei non proseguire il mio rapporto lavorativo per svariati motivi (perdita di fiducia da parte dell’azienda, troppe domande e pretese, troppe assenze, eccetera), oppure ricominciare in tutta flessibilità nell’attesa della nuova scadenza dei tre mesi e così via come in un eterno ritorno (intanto devo subordinare il mio tempo alle necessità dell’azienda, non posso ammalarmi troppo, non posso fare un mutuo per una casa o una finanziaria per una grossa spesa dal momento che la mia busta paga non può garantire le banche, eccetera). Comunque vada, non riesco proprio ad immaginare una “flessibilità” aliena da “precarietà”, sia che mi trovi a lavorare sempre nella stessa azienda glissando disinvoltamente da una mansione all’altra, sia (peggio) che passi da una ditta all’altra con tipi di contratto sempre più diversificati e precari. Anche volendo, non coltivo proprio la “mentalità” del posto fisso, piuttosto desidero un posto fisso, per vivere tranquillo e possibilmente felice. Riprendo il discorso di Federici, che alla piaga della “mentalità del posto fisso” aggiunge quali cause della crisi del Piceno la scarsa produttività e l’alta burocrazia (scarsa flessibilità e assenteismo sono state trattate in quanto abominevoli conseguenze della “mentalità da posto fisso”). Le multinazionali si comportano un po’ come le ambasciate: il terreno che occupano deve risultare neutro, tendenzialmente estraneo alle regole e alle necessità del contesto. Isole autosufficienti, regolate da proprie leggi e regole: questa è l’utopia che realizzano tuttavia solo in parte, profittando delle possibilità offerte dalla legislazione sul lavoro, sempre più caratterizzata dalla frammentazione, dalla precarietà/flessibilità, dalla concertazione (sic!) monocratica, dal privilegio per la contrattazione di secondo livello (quella aziendale) a scapito del Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro e dello Statuto dei Lavoratori; in una parola, dalla legge 30 (o Biagi che si dica). Le multinazionali, inseguendo l’utopia da selvaggio west della conquista del profitto, mal sopportano quei residui di regolamentazione imposti dallo Stato nel “mercato” del lavoro: lacci fastidiosi, seccanti, che vanno progressivamente tolti. Poi va detto che le multinazionali sono soggetti mobili, che tanto si localizzano quanto si delocalizzano. Le condizioni? Il costo del lavoro, i limiti ambientali e gli ambientalisti, le strategie di marketing, le rivendicazioni sindacali, i rapporti con la politica e con le amministrazioni locali, possibilità di azioni finanziarie e azionistiche, eccetera; ma la regina delle condizioni è una sola: il profitto. Rendere appetibile la nostra zona per una multinazionale significa renderla bacino di profitto; e il profitto si fa aumentando le entrate ma anche, e soprattutto, riducendo le uscite, le spese, e questo risulta possibile là dove la richiesta di lavoro è alta (e il costo del lavoro più basso che si può). Le multinazionali adorano le zone depresse perché possono trarvi la linfa che permette loro di trarre profitto: la disoccupazione e la maledetta necessità di uno stipendio che consenta a malapena di tirare avanti. Per il resto non abbisognano di alcun legame con il territorio che le ospita, perché i loro prodotti vanno altrove, la distribuzione è globale, le decisioni si prendono nei piani alti della “Casa Madre”, che sta da un’altra parte, e ciò vanifica qualsiasi contrapposizione sindacale, qualsiasi “concertazione” che vada oltre le semplici questioni di stabilimento. Al momento si è riusciti a scongiurare una direttiva sulla precarietà a livello europeo, la Bolkestein, però in questo nostro paese la legge 30 può bastare alle multinazionali, anche se non siamo la Romania o l’Albania o la Polonia. Bastano la legge (e si sopporta pure la fastidiosa burocrazia, con buona pace di Federici) e l’alto livello di disoccupazione, al diavolo il resto. Al diavolo la promozione di un serio e lungimirante piano di sviluppo territoriale che coinvolga tutti i soggetti interessati, dalle amministrazioni alle Camere del lavoro, dalle necessità di sostenibilità ambientale a quelle dello sviluppo economico del territorio, dalle innovazioni tecnologiche alle culture e tradizioni locali. La verità, purtroppo, tanto in questa nostra zona che a livello nazionale, è che l’industria italiana è ferma da anni quanto a innovazione e sviluppo, che mai è stato intrapreso un serio progetto di rilancio industriale, che si è sempre trattata la “questione meridionale” come un nobile punto per abbellire i programmi (sulla carta) di governo e mai piuttosto come questione nazionale (con buona pace, questa volta, di Antonio Gramsci), tanto che bisognerebbe proprio piantarla con questa cosiddetta “questione meridionale”. Le imprese hanno goduto di incentivi e sgravi da parte dello Stato. Soldi, in poche parole, che non sono stati investiti per la creazione di un tessuto sociale in armonia con lo sviluppo economico; soldi che piuttosto hanno preso la via della speculazione finanziaria, del valore immateriale perché rischioso, troppo rischioso puntare sulla qualità e sulla diversificazione dell’offerta, sullo sviluppo. Soldi, e Finanziarie generose, e nuove regole flessibili per il mercato del lavoro, e tutto questo non è bastato, non basta: Confindustria vuole fare il Governo del paese, il suo presidente Cordero di Montezemolo detta le regole e pretende che si rispettino, consapevole della debolezza della politica italiana e minacciando la fine dell’era della “concertazione”. Cosa ridicola, e terribile, se pensiamo che dall’abolizione della scala mobile e dalla nascita dell’era della “concertazione” i primi (e gli unici) a non rispettare i patti sono stati proprio gli industriali (i padroni, come si diceva e si dice), forti di un ristagno economico che ha bloccato lo sviluppo ma non certo il profitto. Ecco allora le multinazionali, le isole che non ci sono, elargitrici di (poche e precarie) concessioni occupazionali, distillatrici di speranze a breve termine, di salari a progetto; ecco la lotta feroce dentro quello che una volta si definiva l’esercito industriale di riserva, quel grande esercito di disoccupati lacerato da lotte intestine per la conquista di quelle poche e precarie occasioni concesse. Altro che “mentalità del posto fisso” da abbandonare! Chi ce l’ha più avuta, eccezion fatta del presidente Federici e della categoria che rappresenta, la “mentalità del posto fisso”? Forse i lavoratori dei call center? I Co.Co.Co? I Co.Co.Pro? A volte le parole fanno più male delle botte, almeno quando vengono pronunciate per dispetto. Siamo precari, flessibili, affamati, disperati. Come potremmo essere più attraenti? Qualche Agenzia, all’occorrenza, ce lo spiegherà.