« […] vuol dire in maniera matematica che la Manuli, oltre a richiedere il licenziamento per i reparti fermi e non produttivi, chiude definitivamente Refrigerazione e Tal, ridimensiona i reparti di servizio alla produzione e licenzia ulteriormente altri 52 lavoratori».
Per commentare la notizia potremmo iniziare riportando gli insulti o gli inviti ad occuparci di “altro” (inviti più o meno educati ed espliciti) che furono rivolti alla nostra Associazione, durante le fasi concitate della trattativa sindacale nell’autunno del 2009. Potremmo anche narrare l’isolamento, l’incomprensione e a volte l’irrisione cui fummo sottoposti sempre in quel frangente quando, probabilmente unici, denunciammo l’inesistenza di un vero piano industriale da parte del gruppo in questione, nonché la fallacità di un accordo che da parte della Manuli Rubber aveva probabilmente come unico scopo quello di dilazionare nel tempo la chiusura dello stabilimento, sfiancando le resistenze da parte degli operai, di alcune forze sociali e della città in generale (http://(http://www.picusonline.it/scheda.php?id=20788). Riguardo al caso Manuli, la nostra associazione scrisse anche una lettera alla nota trasmissione di RAI3: Report. Ottenemmo come risposta un vago “vedremo in futuro”. Forse la troupe della Gabanelli era allora troppo impegnata in qualche punto della Terra a misurare il livello delle radiazioni ambientali.
Sono passati quasi due anni e molto di quello che avevamo annunciato si è avverato. Nel frattempo non abbiamo accolto gli inviti rivoltici e non ci siamo occupati di altro. E non lo faremo. Significherebbe rinnegare i valori e i principi su cui si fonda Piceno Tecnologie, così come disconoscere le motivazioni della sua nascita. Oggi non cerchiamo alcuna rivincita mediatica, né tantomeno abbiamo interesse a cercare capri espiatori o colpevoli. Solo per amor di cronaca rimandiamo i lettori ad un articolo, che riporta in sintesi gli accadimenti e le vicissitudini attorno alla vicenda dello stabilimento ascolano: http://www.movisol.org/09news222.htm. Piuttosto vorremmo ancora una volta spingere l’opinione pubblica, le forze sociali e le istituzioni a riflettere su un quadro preoccupante e allo stesso tempo drammatico che caratterizza la situazione industriale e quindi lavorativa del nostro territorio.
È evidente come i problemi che la nostra Provincia sperimenta da alcuni anni non possono e non debbono essere slegati dalle dinamiche economiche e soprattutto dalle politiche di indirizzo che dominano a livello internazionale (e di riflesso a livello nazionale e locale). Ma tali considerazioni non possono in alcun modo giustificare le inerzie, i fatalismi o peggio certe scelte politico-economiche a livello locale che avallano processi di deindustrializzazione, nel nome di un’inarrestabile globalizzazione. Molti politici vedono nella “distruzione creativa” che la globalizzazione porta con sé una sorta d’inevitabile e benefica trasformazione sociale: si parla sempre con maggiore frequenza di ottimizzazione, risparmio, efficienza, competitività, miglioramento della produttività. Tutti termini semanticamente positivi, ma che hanno un costo. Un costo tanto più elevato quanto minore è il tempo in cui si vuole raggiungere questi obiettivi. E nessuno parla mai di questo costo. Il costo non è quantificabile solo in termini economici, ma soprattutto e principalmente in termini di condizioni di vita delle persone. Un costo sociale altissimo che nessuno Stato al mondo può e deve permettersi. Le sommosse popolari che da mesi caratterizzano gli scenari sociali di ampie regioni del mondo, le rivolte del Nord Africa, gli scontri in Grecia, le manifestazioni in Irlanda, Portogallo e ora anche in Spagna sono lì a dimostrare questo. Nessun principio di efficienza e risparmio può passare sopra il valore della vita umana, sul suo sviluppo dignitoso e pieno. È quindi necessario tornare ad un’economia a servizio dell’essere umano e tesa al bene comune. Bisogna porre l’essere umano al centro delle politiche economiche di un Paese. In una realtà ostaggio di un'apparentemente irreversibile ed esclusiva rincorsa del profitto individuale, potrebbe sembrare un obiettivo utopico e certamente un’impresa titanica, ma non abbiamo alternativa. Non perseguire questo scopo riporterebbe l’Italia ed in particolare il nostro territorio ai livelli di vita media dei secoli passati, con tutto quello che ne consegue in termini di assistenza sociale, sanitaria, istruzione e ricchezza. Non possiamo permetterlo: è un principio etico che ce lo impone, è un fine morale prima che politico a guidarci.
Quale potrebbe dunque essere una possibile strada di risalita per il nostro territorio? Quello che Piceno Tecnologie oggi propone è la stessa ricetta che a suo tempo pubblicizzammo durante la presentazione della nostra Associazione: la costituzione di un’Autorità per la Valle del Tronto, sulla scorta della “Tennessee Authority Valley” voluta dal Presidente americano Roosevelt il 18 maggio del 1933, nel mezzo della terribile crisi del ’29 (http://www.picusonline.it/scheda.php?id=20630). Un'agenzia «investita di poteri governativi, ma con la flessibilità e l'iniziativa di un’impresa privata», che al suo interno potrebbe inglobare e ridisegnare una struttura come il Piceno Consind, un ente al centro di numerose polemiche negli ultimi mesi. Lo stesso progetto di riconversione dell’area ex-SGL Carbon potrebbe poi rappresentare il primo banco di prova per questa agenzia. Quando proponemmo tale iniziativa facemmo riferimento anche ad una ipotetica Banca del Sud, realtà che puntualmente è stata costituita e a cui si potrebbe legare l’Autorità per la Valle del Tronto. Il nostro territorio, ancora abbastanza sviluppato benché in crisi profonda, non è troppo vasto in termini di estensione territoriale e come numero di residenti: potrebbe rappresentare un laboratorio ideale per sperimentare un modello che, se vincente, sarebbe di esempio per lo sviluppo dell’intero Mezzogiorno di Italia. La nostra Associazione qualche anno fa parlò di questa proposta con l’ingegner Goti, durante la visita dell’ex-ministro Scajola in città, nonché durante un incontro a Roma con il professor Gianluca Esposito, Direttore Generale Incentivi alle Imprese del Ministero dello Sviluppo Economico. Entrambi dimostrarono grande apprezzamento per la nostra proposta di un’agenzia di sviluppo, ma risposero che l’iniziativa doveva partire dal nostro territorio. A questo punto ci chiediamo dove sia l’inghippo: falso interesse mostrato da parte del Governo per il nostro territorio oppure reticenza delle istituzioni locali? Sarebbe molto importante ed interessante poter rispondere a tale quesito…
La realizzazione di un tale progetto è chiaramente una scommessa formidabile ed una sfida eccezionale per il territorio intero: un invito alla coesione e a mettere da parte interessi localistici più o meno nobili, sia da parte di singoli individui che di lobbies più o meno dichiarate. Per vincere tale sfida dovremo sconfiggere campanilismi che proiettano la nostra Regione indietro all’epoca dei Comuni, più che verso la costruzione di un Paese unito e moderno. Bisognerà cancellare i protagonismi politici locali. Ma soprattutto dovremo vincere la resistenza di chi pensa ancora in termini di libero mercato come dogma assoluto e incontrastato (nonostante il crollo oramai evidente a livello mondiale di certi modelli economici). Il modello che si cerca di proporre anche per il nostro territorio, e che più volte mi è capitato di sentire dalla bocca dei nostri politici locali, è quello del “tutti imprenditori” e quindi della piccola e piccolissima impresa. Nella sua utopia, soprattutto di fronte ad un mercato globale, tale modello porta con sé anche distorsioni fondamentali della realtà economica di un Paese: qualunque economia senza media e grande industria è destinata a crollare. Soprattutto oggi dentro una competizione su scala mondiale, dove più che la competizione sul costo (persa in partenza dai paesi sviluppati) quello che conterà sarà sempre più il contenuto tecnologico dei prodotti. Due esempi emblematici che stanno a dimostrare l’importanza della grande industria sono Germania e Francia, che con i loro colossi industriali stanno dominando le scene economiche planetarie. Garantendo benessere e sviluppo per le rispettive popolazioni. La piccola e la piccolissima impresa costituiscono l’ossatura dell’Italia, svolgono e svolgeranno un ruolo fondamentale per l’economia del Paese. Tuttavia senza la spinta della tecnologia e della ricerca non vi è futuro neanche per loro. Per non parlare delle enormi potenzialità dell’indotto nel loro sviluppo. Solo le medie-grandi aziende hanno quel potenziale in termini di capitale umano innanzitutto e poi finanziario per fungere, in sinergia con le Università, da contenitori per il trasferimento tecnologico e delle conoscenze avanzate.
La questione che sta alla base non è semplicemente quella di “creare un posto di lavoro”, ma di sviluppare la potenzialità e la creatività di ogni essere umano. Si capisce bene dunque quanto siano mendaci le promesse di una società che vive solo di turismo, non solo dal lato di un’impossibile sostenibilità economico-finanziaria, ma soprattutto dal lato dello sviluppo umano e culturale. Vivere unicamente di turismo significa vivere un parassitismo economico-culturale, su qualcosa che è stato realizzato dall’ingegno di qualcun altro (es: un’opera d’arte) o dalla natura. L’essere umano ha bisogno di creare, esplorare, superare costantemente i propri limiti. È una profonda esigenza insita nell’uomo. Non ci sono politiche che possono in alcun modo soffocare questo istinto. Il prezzo è la degenerazione morale e sociale dell’umanità, condizione che stiamo sperimentando in modo accentuato dalla fine degli anni sessanta.
Qualche anno fa, dopo un incontro con gli ex-lavoratori della Cartiera, Gian Mario Spacca, l’attuale Presidente della Regione Marche, mi rimproverò di aver messo in discussione pubblicamente la sua anima “industrialista”. Come risposta alle mie perplessità sulla politica industriale regionale, mi disse: «dobbiamo andare verso la piccola impresa. Difatti così come i grandi animali – i dinosauri – si estinsero nel corso della Storia, così le grandi aziende si estingueranno. Mentre le piccole imprese – agili e veloci come i piccoli animali – sopravvivranno». Perplesso, tentai di dire che non esiste il darwinismo in economia, ma non ci fu modo di convincerlo. Mi rispose: «Certo che esiste!». Già, il darwinismo economico. Magari come quello sociale: il più forte sopravvive, il debole soccombe. Chissà come si sarebbe espresso Aldo Moro, come relatore della tesi di laurea di Spacca, riguardo al darwinismo sociale. Dovremmo dunque chiederci se c’è qualche correlazione tra il pensiero economico darwinista, tanto presente anche nei nostri politici locali, e la “fuga” delle grandi aziende dal Piceno? Sarà forse una coincidenza l’infelice frase di Giampietro Castano («Non vi sognate di arginare la chiusura e la fuga da Ascoli delle grandi aziende!» - http://www.picusonline.it/scheda.php?id=20787)?
Egregio direttore, più che la battaglia per uno stabilimento a noi pare che, anche dietro la vicenda Manuli, si nascondano visioni dell’Uomo profondamente diverse. Da queste non possono che discendere politiche economiche e sociali profondamente differenti. Pochi giorni fa un amico, riferendosi alla terribile crisi sociale ed economica che stiamo vivendo, commentava così: «Sono tempi durissimi, questa è una battaglia dello spirito, più che della materia». In un certo senso aveva ragione.
Piceno Tecnologie sa da che parte stare e da lì continuerà a combattere questa battaglia.