Ascoli - L’importante
mostra di Tullio Pericoli, Forme
del paesaggio, evento
artistico di prim’ordine in corso di svolgimento ad Ascoli Piceno, esige
di essere ripetutamente discussa, analizzata, questionata.
Nel
pamphlet preliminare dell’esposizione viene richiamata l’idea
paradossale dell’inesistenza di Ascoli Piceno, dovuta ad un breve,
quanto fulminante testo di Giorgio Manganelli, per lo più assunta
quale fantasia innocua di uno scrittore inarrivabile nell’invenzione
del ghiribizzo; nondimeno il testo contiene una contemplazione
dissimulata, lavora una realtà occultata, cioè lo spegnimento,
l’evanescenza di una città, che pure ha inteso costruirsi secondo
consapevoli istanze proprietarie ed egemoniche, rispondenti a
paradigmi estetici ben istruiti, d’altro canto paralizzatasi nel
corso dei secoli successivi entro ed attraverso il travertino stesso
che la costituisce, divenuto specchio di una immobilità ossessiva,
inquietante.
Concettualmente la mostra è determinata secondo i
canoni della poetica kleiana, essenzialmente sull’idea di arte non
come rappresentazione mimetica della realtà, piuttosto come indagine
che disvela l’interiorità delle cose. Pericoli cortocircuita il
suo magistero, le sue elaborazioni poetico-pittoriche con l’evento
catastrofico che ha colpito il territorio locale, il terrae
motus del 2016, per mostrare
le mutazioni, per l’appunto intime, interiori del paesaggio.
Il
fatto è che il territorio non risulta mutato solo dal terremoto, lo
è anche o forse più dall’essere esso stato guastato, dagli anni
settanta, ininterrottamente sino ai primi anni duemila, al limite
dell’esplosione della bolla finanziaria nel 2008, dall’altrimenti
resistibile assalto degli imprenditori edili, da ripetute, arronzate,
scriteriate aggressioni industrialiste, rese possibili da susseguenti
governance
politico-finanziarie, le quali hanno disfatto l’armonia delle
campagne, la figura garbata delle colline, il melodioso fluire di
fiumi e torrenti, trasformando un paesaggio naturalmente, umanamente,
poeticamente significativo in un miserabile compound
di moduli prefabbricati in cemento armato, guarniti in bellavista di
implausibili, smisurate denominazioni aziendali, ora svuotati,
disattivati, dannati con tutta la disfatta che il loro insediamento
ha comportato.
Ascoli ha tratto per secoli la propria ricchezza dalla
forzatura delle capacità produttive di un fervido lavoro agricolo in
regime mezzadrile prima, in seguito d’affitto, essendo per lo più
una città rentier ovvero
parassitaria, priva di una sua propria qualità produttiva; ha
sostituito per pochi decenni tale ricchezza con le rimesse di un
lavoro industrializzato di impronta fordista/toyotista; attualmente,
in un contesto produttivo immateriale, pare non assegnarsi altri
obiettivi che svendere sé stessa - per meglio dire, la città viene
data in offerta, preda di solerti immobiliaristi che provvedono per
la loro parte a depopolare il centro storico, ciò è a dire a
espellerne il genius loci,
allo scopo di attrarre un turismo quanto più massivo possibile,
nella convinzione che l’inestimabile patrimonio, capitato in
eredità ai suoi svagati abitatori, possa solo essere mercificato.
Infine, poste le
soprascritte, sommarie considerazioni, l’interrogazione è che cosa
possa, debba significare forma-paesaggio. Vengono in mente le
Demolizioni
di Mafai, opere mirabili nella loro incantevole povertà, nelle quali
il pittore romano dà conto dell’alterazione del paesaggio della
città immortale riconfigurantesi secondo le norme estetiche del
fascismo; vengono in mente, va da sé, i paesaggi urbani di Sironi,
ma forse più profondamente i paesaggi gallesi di Joseph Hermann,
dove si rappresenta una duplice alterazione - quella primitiva, della
potenza ctonia di una terra sventrata allo scopo di estrarre
ricchezza dalle sue viscere, e la successiva, dello smantellamento di
quegli stessi sventramenti, le miniere, nella seconda metà degli
anni ottanta del secolo scorso.
Per altro verso, non si intende il
paesaggio italiano al di fuori del paesaggio dell’Italia
appenninica, nel quale rientra il paesaggio ascolano implicitato
nella valle truentina un tempo felix;
esso evidenzia un carattere nostalgico, di modo che in questa
prospettiva può interpretarsi l’esperienza moderna del paesaggio,
dalle vedute pervase di platonismo dei rinascimentali, fino ai
démontage
di Cézanne o alle scomposizioni enigmatiche di Klee, attraverso le
ripetibilità di Monet o gli appannamenti di Turner - se è vero,
come è stato detto, che il paesaggio è l’elaborazione di una
perdita, perdita di un pre-paesaggio o non-paesaggio che è la natura
originaria, dunque di una vista non-visiva, la forma-paesaggio messa
in mostra al Palazzo dei Capitani di Ascoli Piceno interroga intorno
alla pensabilità, alla praticabilità del paesaggio entro cui si è
gettati, intorno alla sua figura sul bilico di divenire
rappresentazione panoramicata, nella quale il non-visivo rischia di
trasmutarsi in visivo rimosso.