Introdurrà l'evento il giornalista Franco De Marco insieme alla prof.sa Emanuela Antolini.
27 racconti fulminanti uniti da un sottile doppio filo. 27 protagonisti di cattiverie: quelle obbligatorie per chi infine si ribella all’essere stato vittima, consapevole o no, di qualcuno che ha amato, di qualcuno cui si è affidato, di qualcuno che ha dovuto sopportare. Una terapia della mente, una liberazione necessaria, quella raccontata in questo divertissement con la leggerezza dell’ironia.
Maria Francesca Alfonsi, giornalista, ha scritto Il sogno della casa terrena (1997, il lavoro editoriale).
Capita a tutti, prima o poi, di trovarsi in una delle situazioni descritte nei racconti del libro che Maria Francesca Alfonsi ha voluto intitolare Cattiverie obbligatorie.
Quel momento in cui il suggerimento cristiano del porgere l’altra guancia è quasi una provocazione di fronte alla definitiva aspettativa delusa, l’ennesimo torto immeritato.
E la reazione che soffochiamo, convinti che vivere in società equivalga a delegare la nostra esigenza di giustizia a referenti che applichino norme condivise, slegate dal nostro singolo sentire, non è affatto garanzia di serenità.
Potremmo forse ritenerci soddisfatti per aver visto riconosciuta la nostra ragione rispetto al torto subìto ma non sempre questo basterà a liberarci dal malanimo covato in attesa di giudizio.
Questo nel caso di soluzione del conflitto a nostro vantaggio perché, se così non fosse, se oltre alla frustrazione derivata dal sentirsi danneggiati si aggiungesse anche il non riconoscimento “ufficiale” di tale fatto, ci sentiremmo colpiti due volte.
Nelle storie che ci racconta l’autrice, al contrario, il meccanismo è molto più lineare: si tollera fino a quando non si percepisce che un solo attimo di più equivarrebbe alla perdita completa dell’identità, e allora ci si ribella in maniera definitiva con l’unico, per questo obbligatorio, gesto che possa pacificarci: annientare l’altro perché la nostra vita possa continuare.
Renderlo impotente attraverso il ridicolo, o addirittura eliminarlo fisicamente, non ha importanza, in questo libro non si valutano i gesti secondo criteri altri che non siano la volontà di sentirsi liberi da qualcosa che opprime, limita, inganna.
Quello che porta alla manifestazione della “cattiveria obbligatoria” è un percorso in cui non ci sono accumuli di rancore destinati a deflagrare in un gesto spettacolare di rabbia, l’opposto anzi.
Le situazioni in cui si svolgono gli eventi mostrano come, a volte, si arrivi a comportarsi in modo innegabilmente “cattivo” con un candore che sgomenta, compiendo gesti imprevedibili e necessari.
Questa cattiveria qui non è il cinismo annoiato e sapiente di chi agisce nel tempo tessendo una trama di meschinità intorno a qualcuno inviso per annientarlo, no.
È un attimo che ci restituisce quello che sentivamo perso, la dignità piuttosto che un riconoscimento meritato.
È un libro catartico, chi legge si sente ripagato per tutti i cow boys che ha dovuto subire nel suo essere indiano.