Melancholia non è involuto, debordante e – a tratti – ridicolmente forzato come il precedente Antichrist. Con lui condivide solo il momento cupo del regista, che depresso lo è stato sul serio.
Von Trier realizza con Melancholia il suo Sussurri e grida e un film che non stonerebbe nella filmografia di Bergman. Un film rigoroso e severo.
Ma un grande film si valuta anche dai particolari.
E Von Trier qui ne offre un’infinità. Fin dalla scena iniziale, con quella limousine troppo grande per quella minuscola stradina, o con quell’impetuoso “cambio” di quadri nella libreria di casa.
Lo spegnersi inesorabile di Justine, in tutto il primo tempo, è una partitura encomiabile di temi, ritornelli, stonature, sprofondamenti. I genitori sono le figure primitive che devono essere: la madre, Charlotte Rampling, è un cerbero di cinismo; il padre,John Hurt, un magnifico cazzone amorale.
Lo strumento di misurazione del pianeta Melanchonia, chiaramente opposto al telescopio, è arcaico, segno di un’altra dicotomia nascosta: intuizione contro ragione, spirito contro forma prestabilita (l’oggetto di legno si punta al petto, è a contatto con il cuore, è di uso immediato e facilmente maneggevole).
Nelle dicotomie ovunque presenti è quindi fondamentale l’unità di luogo e la precisione dell’ambientazione: nella casa tutto è perfetto.
Importanti perciò le figure degli “organizzatori”: quello del matrimonio (il grande Udo Kier) e quella del maggiordomo della casa, il “piccolo papà”, come lo chiama Justine.
È lui che si occupa che siano mantenute forma, pulizia, ordine: tutto deve essere sotto controllo. Nel darsi puro dell’esistenza, tutto deve convergere per nascondere la morte, la fine, l’abbandono, i profondi timori.