Nicolotti, la Frale usa lo stratagemma di Schopenhauer

Nicolotti, la Frale usa lo stratagemma di Schopenhauer

Se in una discussione ci si accorge di soccombere, allora si deve cambiare argomento

con esso il filosofo si proponeva di raccogliere “gli artifici disonesti più ricorrenti nelle dispute” che vengono messi in atto da chi desidera aver ragione ad ogni costo. Lo stratagemma numero 29 è il seguente:
“Se in una discussione ci si accorge di soccombere, allora si deve cambiare argomento; si deve cioè cominciare subito a parlare di qualcosa di completamente estraneo, quasi come se c’entrasse qualcosa con il tema e costituisse una prova contraria all’avversario”.
Barbara Frale, nella sua infervorata replica alla mia lettera del 18 febbraio, applica alla perfezione questo stratagemma.
Ad alcune mie considerazioni in merito al contenuto dei suoi libri sulla sindone di Torino e sull’accoglienza negativa che essi hanno ricevuto da parte di diversi studiosi, anche di coloro che si occupano della sindone da decenni (persone che lei stessa aveva lodato nei suoi libri), l’autrice risponde con un avvilente attacco personale condito con un panegirico dei propri titoli e meriti di studio. Come se per uno studioso l’aver ottenuto un dottorato di ricerca e un diploma di paleografia non fosse un punto di partenza quasi obbligato, ma un raro e specialissimo merito, quasi l’ottenimento di un’infallibilità scientifica per chi lo ottiene.
Che cosa c’entra poi che la Frale abbia collaborato all’allestimento di una mostra sui cavalieri alla Reggia di Venaria - nella quale è esposto un pannello di legno che verosimilmente non c’entra assolutamente nulla con la sindone, e non è nemmeno sicuro che c’entri coi Templari - davvero è difficile da comprendersi.
Per inciso: la Frale dice che “mi sbaglio di grosso” e che “parlo a vanvera” dal momento che, tra le altre cose, avrei ignorato la “accoglienza calorosa” che l’Università di Torino le avrebbe riservato nella persona dei “famosi medievisti” Alessandro Barbero e Andrea Merlotti, i quali l’hanno invitata per la mostra.
Non è pedanteria far notare quanto Barbara Frale riesca ad essere imprecisa persino nel semplice compito di riferire la qualifica e la provenienza di due studiosi, peraltro rispettabilissimi: nessuno di loro, infatti, sta all’Università di Torino, in quanto Barbero insegna all’Università di Vercelli e Merlotti è responsabile dell’Ufficio Studi della Reggia di Venaria.
Non è tutto: da sempre Merlotti si occupa di storia moderna, e come sia possibile che la Frale lo conosca come studioso di medioevo, addirittura “famoso”, è davvero un mistero che non merita commenti.
Stesso discorso vale per il giudizio sulle ricerche della Frale espresso sul quotidiano “Il Messaggero” da monsignor Sergio Pagano, Prefetto dell’Archivio Vaticano presso cui la Frale lavora; giudizio negativo che, con incredibile sicumera, Barbara Frale vorrebbe quasi trasformare in un elogio, accusando me di aver stravolto e frainteso il senso di quelle parole per trarne vantaggio nelle mie “polemiche”.
Credo che sia sufficiente ricopiare le parole di Pagano così come sono state pronunciate: “Mi limito ad osservare che il metodo di scrittura della storia della dottoressa Frale non è quello della tradizione dell'Archivio Vaticano.
In genere i nostri archivisti pubblicano saggi molto bene accolti poiché sono frutto di un solido metodo positivistico, di un duro e lungo lavoro di ricerca e di lima, dunque lontani mille miglia dai presunti scoop di cui il pubblico è ghiotto”. La lingua italiana non è un’opinione.
La differenza che la Frale istituisce, poi, tra le “regole dell'archivistica” e quelle della “ricerca storica”, come se l’una non andasse di pari passo con l’altra, mi lascia basito.
L’aver ottenuto in passato un diploma in paleografia dalle mani del medesimo Prefetto, non vuol certo dire che l’insegnante sarà responsabile di ciò che scriveranno in futuro tutti i suoi allievi; affermando che “se monsignore volesse davvero sconfessare il mio metodo dovrebbe prima sconfessare se stesso” l’autrice sembra piuttosto rivelare il proprio disappunto per la stroncatura, tentando di ritorcerla capziosamente contro chi l’ha pronunciata.
Se nel suo libro la Frale, come è ormai evidente, ha fornito una trascrizione alterata di un manoscritto medievale per far dire ad un testo ciò che esso non dice, questo è un dato di fatto, e posso tranquillamente ritenere che nessun illustre paleografo si sognerà di sostenere la correttezza di una trascrizione così palesemente errata.
Non serve schermarsi dietro diplomi, consensi e personali trionfi: l’unica cosa da fare è guardare la fotografia del manoscritto. E nemmeno serve invocare a sproposito il nome di qualche altro studioso, quando persino qualcuno tra quelli citati nei libri della Frale si è dissociato da ciò che ella ha scritto, in qualche caso mostrandosi infastidito non poco dall’essere stato tirato in ballo.  
Per quanto concerne le presunte scritte che sarebbero state identificate “sulla sindone”, si tratta della più volte ripetuta quanto insidiosa imprecisione: le scritte non sono state identificate “sulla sindone”, bensì su certe fotografie della sindone in bianco e nero scattate ottant’anni fa, poi manipolate al computer, il che è cosa ben diversa.
Sulla sindone infatti non si vede assolutamente nessuna scritta, né davanti né dietro, nemmeno facendo uso degli strumenti scientifici più avanzati per la ricerca di tracce nascoste. Se per quindici anni, dopo questa presunta scoperta delle scritte fantasma, nessun serio studioso le aveva più prese in considerazione, forse ci sarà stato un motivo.
Per non parlare del fatto che le scritte proposte dalla Frale spesso non corrispondono esattamente a quelle che sono state lette dagli autori delle pubblicazioni a cui ella si è ispirata. Non c’è nemmeno accordo tra chi le scritte ha creduto di vederle: guardando un po’ di macchie nere su fotografie sgranate, ingrandite e sottoposte ad operazioni di contrasto, con la fantasia si può leggere qualunque cosa.
Per finire, vorrei passare all’unica questione davvero importante, quella che tentavo di sottoporre all’attenzione del direttore del giornale (senza aver assolutamente definito “stupidi e ignoranti” i giornalisti, come la Frale tenta di farmi dire): all’interno dei libri della Frale sono stati rinvenuti - e non solo da me - diversi errori, imprecisioni, citazioni alterate e traduzioni manipolate.
Di alcuni di questi errori ho dato documentazione dalle pagine del mio sito (www.christianismus.it), mettendo a disposizione del lettore le fotografie e i testi utili perché ciascuno possa farsene un’opinione; altri sono stati esaminati altrove (ad esempio nel sito sindone.weebly.com e sul secondo numero della rivista “Historia Magistra”).
Ma a più di sette mesi di distanza dalla prima segnalazione di alcuni di questi errori oggettivamente verificabili, Barbara Frale non ci ha ancora onorati di qualche risposta alle documentate critiche che le abbiamo rivolto: si limita ad auto-celebrare la propria notorietà mediatica e a qualificare come “velenosi” i suoi critici, che sarebbero invidiosi dei suoi successi.
Stia pur tranquilla: un successo costruito su simili fondamenta, per parte mia, non lo desidero affatto. Saremmo tutti ben disposti a dar vita a quel dibattito scientifico che ella stessa a parole invoca, ma al quale non sembra voler partecipare. Ci vuol poco per verificare se un testo latino o greco è stato ben tradotto o meno, se in un manoscritto sta scritta una parola o un’altra, se un documento dice o non dice quello che la Frale afferma.
Quando però all’interno dei suoi libri Barbara Frale pretende di leggere ed interpretare espressioni di lingua ebraica che sarebbero visibili sulla sindone, ma al contempo dà prova di non saper nemmeno distinguere una dall’altra le lettere dell’alfabeto ebraico, non c’è bisogno di chiamare in causa chissà quali blasoni accademici e rinomanze personali: basta prendere in mano una grammatica. Si ritorni, per favore, a parlare di dati oggettivi, e si lascino da parte depistaggi e invettive personali. Solo dei primi, d’ora in avanti, voglio continuare a discutere.