E' etico che la cronaca enfatizzi un suicidio?

E' etico che la cronaca enfatizzi un suicidio?

La notizia inlfuenza gli indecisi e li spinge ad imitare

Prime pagine e locandine per un altro giovane, anche lui di Venarotta, che si è esploso un colpo in testa poco più di una settimana fa. I colleghi dovrebbero fare una profonda riflessione. A riprova di quanto anticipato citiamo un testo di Alessio Mannucci che scrive: «Nel 1844, Brigham, fondatore della prestigiosa rivista “American Journal of Insanity”, oggi “American Journal of Psychiatry”, scriveva: «Che i suicidi siano pericolosamente frequenti nel nostro paese è evidente a tutti. Come misura di prevenzione noi suggeriamo alle testate giornalistiche di non pubblicare i dettagli di tali avvenimenti. Non c’è nulla di scientificamente meglio dimostrato del fatto che il suicidio è spesso portato a compimento per effetto dell'imitazione. Un semplice paragrafo di cronaca giornalistica può suggerire il suicidio a venti persone. Alcuni particolari della descrizione sono in grado di accendere l'immaginazione dei lettori, fino al punto che la disposizione a ripetere quel comportamento può diventare irresistibile».
Il sociologo David Phillips parla di “effetto Werther” con riferimento a “I Dolori del Giovane Werther” di Goethe, in cui si narra il suicidio del giovane protagonista in seguito ad una delusione sentimentale: il libro riscosse un grande successo e la sua divulgazione fu seguita da un incredibile numero di suicidi in tutta l’Europa. Un effetto analogo lo si osservò in Italia dopo la pubblicazione - nel 1802 - del romanzo di Ugo Foscolo “Le Ultime Lettere di Jacopo Ortis”.
L'importanza del fattore “imitazione” venne messo in discussione dal sociologo francese Émile Durkheim nella sua opera sul suicidio scritta alla fine del secolo scorso. Le sue tesi hanno avuto un largo seguito e vengono riportate anche in studi recenti, benché spesso in modo acritico. Durkheim non nega che l’imitazione possa influenzare un certo numero di suicidi, ma come sociologo era interessato soprattutto al suicidio in quanto fenomeno sociale, quindi a quei fattori capaci di modificare il tasso annuo dei suicidi in uno Stato: «Taluni autori, attribuendo all'imitazione un potere che non ha, hanno chiesto che venisse vietata ai giornali la cronaca dei suicidi e dei delitti. È possibile che questo divieto riesca ad alleggerire di qualche unità l'ammontare annuo di questi atti. Ma è alquanto dubbio che esso possa modificarne il tasso sociale».
Il tema dell'effetto Werther è stato ripreso a partire dalla fine degli anni Sessanta, soprattutto negli Stati Uniti. Lo psichiatra americano Jerome A. Motto ha cercato di conciliare le tesi di Émile Durkheim con il dato certo dell'incremento del 40% dei suicidi a Los Angeles nel mese successivo al suicidio dell’attrice Marilyn Monroe. Il fatto che dopo il suicidio dello scrittore Hemingway non si fosse osservato un analogo incremento dei suicidi portava Jerome A. Motto a sottolineare l'importanza, oltre alla notizia del suicidio in sé e al modo in cui è stata presentata, dell'identificazione con il suicida. Egli riteneva che l'imitazione potesse essere sì un fattore importante, ma non unico, che potesse attivare dinamiche già presenti in persone che si possano identificare con chi ha commesso il suicidio.
Giorgio Nardone e Paul Watzlawick nel libro “L'Arte del Cambiamento” scrivono: «Il lavoro di ricerca di Phillips segue le tracce dell'effetto Werther nei tempi moderni. La sua ricerca dimostra che, subito dopo un suicidio da prima pagina, aumenta vertiginosamente la frequenza di suicidi nelle zone dove il fatto ha avuto grande risonanza. Nelle statistiche relative ai suicidi negli Stati Uniti dal 1947 al 1968, nei due mesi successivi a un suicidio da prima pagina, in media si sono avuti 58 suicidi in più del normale andamento». E non è tutto: «dai dati anagrafici e anamnestici, appare un'impressionante similarità tra la condizione del primo, famoso suicida, e quella di coloro che si erano successivamente suicidati, ossia se il suicida famoso era anziano, aumentavano i suicidi di anziani, se il suicida apparteneva a un certo ceto sociale o professione, aumentavano i suicidi in quei determinati ambienti».
Questa relazione emerge anche da uno studio del sociologo prof. Riaz Hassan, dell'università di Flienders (Australia). Il ricercatore ha analizzato circa 20 mila casi di suicidio, avvenuti tra il 1981 e 1990. Il risultato è stato sorprendente:«La media quotidiana dei suicidi sale di circa il 10%o nei due giorni successivi alla comparsa della notizia di suicidi sui principali quotidiani”. Diverse e rigorose procedure di controllo applicate allo studio del sociologo hanno portato alla conclusione che: “la pubblicità attraverso i giornali probabilmente provocava una certa quantità di suicidi mascherati da incidenti».
Nel 1974, David P. Phillips ha confrontato il numero di suicidi negli Stati Uniti nel mese successivo al suicidio di una personalità — il criterio era la pubblicazione della notizia sulla prima pagina di The New York Times — con il numero di suicidi che ci si sarebbe dovuto attendere per quel mese, tenendo conto per quanto possibile di tutte le variabili. Fra il 1948 e il 1967 erano stati pubblicati 34 casi di suicidio rispondenti ai criteri suddetti: in 26 casi il numero dei suicidi era stato superiore a quello che ci si sarebbe dovuto attendere. Per escludere la possibilità che l'incremento dei suicidi fosse dovuto più alla scomparsa di una celebrità che alla notizia del suicidio, David P. Phillips esaminò con lo stesso metodo l'andamento dei suicidi dopo i decessi degli 8 presidenti degli Stati Uniti avvenuti fra il 1900 e il 1968: l'aumento non era statisticamente significativo, anche dopo l'uccisione di una personalità così popolare come John Fitzgerald Kennedy vi fu solo un lieve incremento dei suicidi.
Secondo Phillips, l'influenza dei media interviene soprattutto sulle situazioni già a rischio, come solitudine, depressione, alcolismo, tossicodipendenza. Dunque, gruppi e associazioni particolari sarebbero in grado di svolgere un'efficace azione preventiva. Phillips ritiene che “il tipo di pubblicità dato al suicidio può influenzare il tasso dei suicidi”, e nota che “studi sulla suggestione indicano che un modello è più facile da essere imitato, se le sue caratteristiche sono simili a quelle di chi imita”.
Tale modello interpretativo, chiamato “social proof”, assume per vera l'ipotesi che i suicidi seriali tendano ad imitare quelli che ritengono loro simili, a dispetto, o addirittura a causa, delle convenzioni sociali. Successivamente, Phillips ha riscontrato anche un incremento di incidenti mortali d'auto e d'aereo (atti suicidi) dopo la pubblicazione di notizie di suicidi. In anni più recenti, questi studi sono stati estesi alle trasmissioni televisive. Esaminando gli effetti di trasmissioni televisive sul suicidio e su altre forme violente di comportamento, nel 1982, Phillips ha riscontrato un aumento dei suicidi di bianchi dopo trasmissioni di film televisivi con scene di un suicidio: in questi film si trattava sempre del suicidio di un personaggio bianco.
Contemporaneamente, si era registrato un incremento di incidenti d'auto mortali maggiore per quelli in cui il conducente viaggiava da solo, rispetto a quelli in cui il conducente era accompagnato da uno o più passeggeri. Queste tesi non restarono indiscusse; Ronald C. Kessler e Horst Stipp hanno messo in dubbio le interpretazioni di Phillips, soprattutto l'importanza dell'imitazione, basandosi principalmente su due argomenti:
1) non vi sarebbe stato un rapporto tra numero di suicidi e indice d'ascolto;
2) l'incremento di suicidi sarebbe stato registrato prevalentemente dopo telefilm con scene di suicidi di personaggi non giovani.
Il ruolo dell'imitazione, seppur un fatto certo, non può essere ridotto a fatto statistico-demografico, come se dopo una trasmissione con la scena di un suicidio potesse essere possibile calcolare l'incremento di suicidi nella varie fasce d’età solo in base all'età del protagonista e all'indice d'ascolto, senza tener conto di fattori, peraltro difficilmente quantificabili, come il modo in cui il suicidio è stato presentato, l'intensità del coinvolgimento degli spettatori nell'azione e dell'identificazione con il personaggio suicida; vi possono essere casi in cui l'identificazione dipende più dal ruolo di un determinato personaggio che non dalla sua età.
Dopo aver analizzato i dati relativi a tre periodi di quattro anni, dal 1973 al 1984, anche questi autori hanno riconosciuto un aumento dei suicidi almeno per il periodo dal 1973 al 1980, ma ritenevano di riscontrare un'inversione di tendenza per il periodo dal 1981 al 1984. Gli autori hanno spiegato questo mutamento con un preteso cambiamento nelle nuove generazioni, “più realistiche e con un atteggiamento più disincantato nei confronti del suicidio”. Tale giudizio sembra però un po’ troppo ottimistico se si tiene conto che nelle due settimane seguite a cinque trasmissioni televisive che dovevano sensibilizzare giovani adolescenti al problema del suicidio nella regione di New York vi fu un aumento considerevole di suicidi e di tentativi di suicidio rispetto alle due settimane precedenti.
Questi dati sono stati confermati da altri autori, mentre Phillips e Daniel J. Paight non hanno potuto riscontrare lo stesso fenomeno in California e in Pennsylvania dopo la trasmissione di tre dei film in questione. Armin Schmidtke e Heinz Häfner hanno studiato questo fenomeno in Germania. Nel 1981 e nel 1982 è stata trasmessa dalla seconda rete della televisione tedesca uno sceneggiato in sei puntate intitolato “Tod eines Schülers” (“Morte di uno Studente”). La storia - non realmente accaduta - del suicidio, apparentemente inspiegabile, di uno studente diciannovenne gettatosi sotto un treno viene esaminata in ogni puntata in rapporto a una problematica diversa: dietro un'apparente normalità compaiono gravi problemi nei rapporti con i genitori, con gli insegnanti, con gli amici, con la ragazza, e così via.
Armin Schmidtke e Heinz Häfner hanno dimostrato che il numero di suicidi di persone che si erano gettate sotto il treno era aumentato nel periodo di settanta giorni durante e immediatamente successivo alla trasmissione del 1981. L’aumento era più elevato per i ragazzi in età fra i quindici e i diciannove anni, cioè +175%, mentre per le ragazze dello stesso gruppo d'età l'aumento era lievemente inferiore, cioè +167%. Donne al di sopra dei 30 anni e uomini al di sopra dei 40 anni non presentarono un aumento significativo di questo tipo di suicidio. In occasione della trasmissione del 1982, l’incremento dei suicidi fu minore, ma proporzionale alla diminuzione dell’indice di ascolto fra gli spettatori in età fra i 15 e i 29 anni. Dopo aver preso in considerazione diverse ipotesi, gli autori sono giunti alla conclusione che si era trattato di un aumento reale dei suicidi, dichiarandosi convinti che “si è riusciti per la prima volta a dimostrare l’esattezza di un’ipotesi avanzata da lungo tempo, che l'impulso a commettere azioni suicide può essere appreso da modelli fittizi”.

La prova dell' “effetto werther”. 

Gli studi citati dimostrano inequivocabilmente l'influenza dei mezzi di comunicazione di massa sugli atti di suicidio. Si deve sempre tenere conto che quando l’uomo prende una qualsiasi decisione lo fa in base a valori e a informazioni che gli sono mediate dall’ambiente per molte vie, dall’educazione alle mode culturali e, soprattutto oggi, dai mass-media. Per questi motivi, un esperto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dopo aver ricordato il ruolo dei mass-media nel "provocare o incoraggiare un comportamento suicida", raccomanda che "i mezzi di comunicazione esercitino estrema prudenza e riservatezza nelle notizie riguardanti suicidi, nella pubblicazione di articoli o nella messa in onda di programmi riguardanti casi di comportamento suicida. Tale materiale e il modo di presentarlo dovrebbe essere discusso con esperti prima di essere reso pubblico". (René F. W. Diekstra).
Questo appello è molto importante in quanto richiama chi lavora nel settore dei mezzi di comunicazione alla responsabilità. Specie in quest'epoca di grande disagio esistenziale e malatia mentale diffusa, dove tra l'altro si fa grande uso (e abuso) di farmaci anti-depressivi che, è stato dimostrato, possono favorire l'istinto suicida.