Ascoli - Tre dipendenti comunali, Elvira Feriozzi, Maria Teresa Conti, Tecla Siliquini, assolte anche in Appello dal reato di truffa ai danni della pubblica amministrazione scrivono una lettera aperta al giornali cittadini.
Questo il testo integrale:
"Egregi Direttori, Spettabili redazioni e giornalisti delle testate locali di Ascoli Piceno
OGGETTO: Lettera aperta di tre dipendenti comunali assolte dal reato di truffa ai danni della pubblica amministrazione
Egregi Direttori, Spettabili redazioni, Spettabili giornalisti,
siamo Elvira Feriozzi, Maria Teresa Conti, Tecla Siliquini, tre dei cinque dipendenti del Comune di Ascoli Piceno accusati, sei anni fa, di essersi indebitamente allontanati dal posto di lavoro senza giustificazione.
Ora che finalmente è arrivata la sentenza della Corte d'Appello che, per la seconda volta in due distinti gradi di giudizio, ci dichiara definitivamente innocenti, riteniamo giusto avere l'opportunità di parlare in prima persona e di esprimere le nostre sensazioni con la nostra voce diretta, oltre la mediazione dell'Avv. Mauro Gianni, che pure ha curato il nostro caso con professionalità impeccabile ed ineccepibile.
Per essere ancora più chiare: noi siamo tra quelle persone che i media locali in questi sei anni hanno definito "fannulloni", una singola parola che trasmette all'opinione pubblica l'immagine di individui scansafatiche, di gente che percepisce uno stipendio dalla pubblica amministrazione ma spende il tempo in oziosi affari personali anziché lavorare per la pubblica utilità.
Dopo sei anni di faticoso e doloroso percorso processuale, la giustizia italiana per ben due volte ci ha scagionato dalle accuse perché il fatto non sussiste. Non abbiamo fatto niente di male, non abbiamo truffato nessuno, tanto meno un ente pubblico, non abbiamo rubato il nostro stipendio, non siamo mai state fannullone.
Vi lasciamo immaginare il peso emotivo che abbiamo portato in questi sei anni di udienze, interrogatori, articoli di giornale in cui i nostri nomi erano stati associati a meschini comportamenti delinquenziali. Vi lasciamo immaginare come abbiamo potuto sentirci mentre i media nazionali parlavano dello scandalo di impiegati comunali in altre regioni d'Italia, e l'avvilimento della nostra reputazione nel pensare che noi potessimo essere associate a quegli stessi atteggiamenti: noi che siamo innocenti, noi che siamo sempre state innocenti, noi che abbiamo sempre saputo di essere innocenti, anche prima che i giudici si pronunciassero.
La ferita era aperta e dolorosa, ma abbiamo cercato di portarla con dignità, continuando a lavorare, senza risparmiarci. Come abbiamo sempre fatto e come è dimostrato, anche nelle carte processuali, dalle quali si evince che non ci siamo mai tirate indietro di fronte alla necessità di essere a disposizione anche oltre l'orario di lavoro, non retribuite, nei fine settimana e in occasione di eventi straordinari. Una di noi tre, in pensione da 16 mesi, più volte è stata addirittura chiamata dal Dirigente o dal Direttore del Servizio cui era stata assegnata per continuare a prestare il suo contributo di esperienza.
Sono situazioni che non ci sono mai pesate, perché siamo sempre state convinte che essere un dipendente pubblico vuoi dire anche e soprattutto essere al servizio della comunità e fare il proprio lavoro a beneficio della città e di chi la vive, si tratti di residenti o turisti di passaggio. La convinzione della nostra innocenza ci ha consentito di non abbassare lo sguardo e continuare a lavorare, a testa alta.
Vi lasciamo immaginare l'angoscia, la pena, la delusione nell'aver scoperto di essere associate a delinquenti, di essere state pedinate e oggetto dell'attenzione degli inquirenti che hanno doverosamente svolto indagini sul nostro conto. Doverosamente, perché come ben sapete, a seguito di una denuncia le autorità inquirenti sono obbligate a svolgere delle indagini. E in effetti la denuncia ci fu, e fu anonima.
Sarà utile ricordare che siamo state scaraventate dentro questo incubo da una persona che non ha avuto mai il coraggio di guardarci in faccia alla pari, ma sì è celata dietro un anonimato che nasconde sia l'autore sia i motivi, ad oggi ancora per noi incomprensibili, di un simile gesto. Poi, emersa pubblicamente la notizia delle indagini, i nostri nomi si sono esposti al giudizio pubblico. Impossibile, ad esempio, dimenticare il modo in cui la vicenda di cui eravamo involontarie protagoniste è stata cavalcata mediaticamente da una persona che all'epoca svolgeva la funzione di assessore nella nostra città.
Dall'altra parte, il Comune di Ascoli Piceno, guardando ai fatti concreti, ha deciso di non costituirsi parte civile in questa vicenda per il semplice fatto che lo stesso ente non aveva rivendicato alcun danno erariale prodotto dalla nostra condotta, che era all'attenzione della giustizia. Ora, chiediamo apertamente a quell'anonimo accusatore (o accusatrice) e a tutti coloro che — più o meno pubblicamente, a voce alta o semplicemente nell'intimo delle proprie convinzioni — ci hanno giudicate fannullone, a tutti coloro che hanno pensato che un'indagine fosse già di per sé un'accusa, a tutti quelli che ci hanno preso a simbolo di non sappiamo quale sistema marcio e corrotto, a tutti coloro che hanno provato a usare le nostre sventure individuali nel tentativo di costruire attorno a sé popolarità e consenso politico, a tutte queste persone chiediamo: chi pagherà?
La risposta è semplice. Se parliamo di denaro, paga il Comune di Ascoli Piceno, per contratto. L'ente è infatti chiamato a pagare le spese processuali. Quindi un ente pubblico è costretto a spendere dei soldi per una vicenda in cui non ha un ruolo diretto: denaro pubblico buttato al vento, o che poteva essere speso in modi a dir poco migliori, se preferite. Quanto alla nostra reputazione, usciamo finalmente a testa alta da questa storia.
Ma che fatica! Che fatica, per sei anni, affrontare la quotidianità con una ferita aperta, profonda e dolorosa che la piena (e doppia) assoluzione rimargina ma non guarisce del tutto. Ora che la parola "fine" è stata scritta su questa brutta avventura, sentiamo il bisogno di rivolgerci direttamente a voi, rappresentanti dei media, che avete un filo diretto con l'opinione pubblica. A voi indirizziamo le nostre parole, perché ci sembra legittimo che, dopo essere state ingiustamente sul banco degli imputati, i media siano partecipi delle sensazioni, delle emozioni che hanno condizionato la nostra vita negli ultimi sei anni e che ancora non svaniscono del tutto.
Ci rivolgiamo a voi anche perché siamo convinte che, nel rispetto della verità e della completezza dell'informazione, vorrete dare voce alle nostre parole, alle nostre domande, alle nostre amarezze. Crediamo che sia corretto darci l'opportunità di rivolgerci direttamente a quelle stesse persone che hanno visto il nostro nome associato a dei reati che non abbiamo mai commesso.
Siamo inoltre convinte del fatto che, pur sapendo che esistono vicende assai più gravi e dolorose della nostra, questa storia possa servire in futuro a molte persone, perché se è vero che basta una denuncia anonima a precipitare una vita in una disgrazia, la sentenza dell'opinione pubblica, prima ancora di quella di un giudice, può infliggere pene assai pesanti, in alcuni casi — come nel nostro — immotivate e ingiuste, ma sempre difficili da cancellare".