L'esperienza nelle Filippine
«Arrivati all’aeroporto internazionale di Davao, nelle Filippine, ha preso forma nel sorriso di Suor Leocadia e suor Letizia (Suore SMAC), quello che avevo percepito nei mesi in cui costruivamo il nostro pellegrinaggio: dopo aver attraversato il mondo, i 26 giovani delle diocesi di Ascoli Piceno, Camerino, Fano e Pesaro erano a casa, in famiglia Nel viaggio verso Talomo, la casa sull’Oceano Pacifico che il vescovo aveva preparato per noi, subito ci siamo imbattuti nella povertà di questo popolo che fa del sorriso e dell’accoglienza la sua caratteristica principale. Le parole che uso non sono certamente capaci di dire quello che abbiamo visto perchè legate alla nostra cultura ricca e consumista. Dico casa ma penso alle palafitte sul fiume che attraversa la città, dove il cartone nel migliore delle ipotesi viene sostituito dalle stuoie e dalle foglie di banana e il fumo dei fuochi impregna ogni cosa; dico macchina ma penso a dei piccoli furgoni variopinti e fatiscenti che trasportano non meno 10 persone in condizioni a dir poco pericolose e sbucano fuori da ogni dove, fermandosi all’improvviso nei posti più impensati; dico bambini e finalmente ce ne sono proprio tanti per le vie della città, tanti davanti alle case, tanti che giocano spensierati. Ho un po’ di paura a scrivere così perché credo che questo modo di parlare ci faccia pensare solo ai drammi di questa terra dimenticando il bene prezioso e la bellezza che il popolo filippino rappresenta per l’umanità. Ma come non chiedere perdono, come non cambiare stile di vita quando esistono ancora nel mondo sacche di povertà così grandi in mezzo a un benessere che qui appare come sempre e solo esagerato? Anche i cani e i gatti sono pelle e ossa mentre da noi hanno molto di più di un pugno di riso che qui sfama una famiglia di sei persone e che costa una cifra impossibile per molti cioè 70 pesos, 1 euro al kg.
Davao è una diocesi di un milione e ottocentomila abitanti. Più grande delle Marche, conta novecentomila cristiani cattolici, un arcivescovo, un ausiliare, trecento suore, settanta missionari religiosi e 84 preti diocesani la cui età media è di trentacinque anni. Sono presenti anche 70 parrocchie delle Chiese cristiane della Riforma guidate da trecento pastori. La comunità mussulmana è il dieci per cento della popolazione.
Le condizioni appena descritte mettono come prioritaria una duplice scelta pastorale che subito ci è apparsa evidente nell’opera dell’Arcivescovo Mons. Fernando Capalla e delle Suore Missionarie dell’Amore di Cristo.
Il Vescovo ci ha parlato a lungo della sua grande opera a favore del dialogo ecumenico ed interreligioso. Sono ormai 12 anni che ha fondato la “Bishops Ulama Conference” che vede uniti insieme i capi religiosi cattolici, protestanti e mussulmani. Abbiamo sperimentato la concretezza del cammino quando per una intera giornata, visitati da tutti i rappresentanti religiosi, siamo riusciti a condividere con loro, specialmente con i giovani cristiani e mussulmani, quel miracolo che nasce da un dialogo che racconta la vita. Mons. Capalla ha tenuto a sottolineare il fondamento di questo dialogo: “L’essere umano è sempre tale in ogni parte del mondo, cultura o tradizione religiosa. È il servizio all’uomo che unisce il nostro cammino. L’umanità è una con una origine e un destino comune e per scoprirlo è necessario conoscersi e prima ancora è necessario stare vicini. E questa vicinanza non è fatta di parole ma di fatti”. Eccone uno capitato poco tempo fa. La casa della figlia dell’Imam di Davao era stata bruciata. Il Vescovo ha invitato la famiglia mussulmana ad abitare presso un prete cattolico: in quattrocento anni non era mai successa una cosa del genere: infatti davanti a queste emergenze si erano utilizzate sempre le strutture pubbliche. Quando la famiglia è tornata a casa la notizia ha suscitato molto scalpore e stupore. Il Vescovo ci tiene a dire che: “Da quel giorno anche se i mussulmani non possono abbracciare chi è di un’altra religione noi lo facciamo normalmente quando ci incontriamo, perché siamo una sola famiglia. È nella praticità delle cose che si vede se il nostro dialogo è sincero. È così che si acquista credibilità. Da quel giorno siamo fratelli ”.
Le suore ci hanno fatto conoscere i loro bambini orfani; sorridenti nella loro casa frutto solo della provvidenza. Come tutto qui. Abbiamo vissuto con loro l’Eucaristia, abbiamo cantato con loro e giocato fino a non poterne più. Pregare insieme e giocare supera ogni muro che la lingua e la cultura possono innalzare. Mi ha colpito che Giannandrea, un giovane di Fano quella sera mentre cenavamo, mi ha detto: “Ma se faccio a meno di due pizze con gli amici quanti bambini riesco a sfamare?”.
Sì il mondo cambia quando cambi la tua vita. Questi 26 giovani sono un seme di speranza per le nostre Chiese locali, per la nostra società italiana. Un seme di dialogo e di attenzione ai poveri. Dobbiamo solo dargli fiducia».