Dietro un coltello c’è il dolore di chi non ha più parole

Dietro un coltello c’è il dolore di chi non ha più parole

Il presidente dell’Ordine degli Psicologi delle Marche e Presidente dell’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche ETS, Giuseppe Lavenia, commenta il caso del 14enne che ha accoltellato un coetaneo a Frascati.

“Non è follia. È solitudine. È educazione emotiva che non c’è.”

Una lite per un debito legato alla compravendita di vestiti, due coltellate al cuore e al fegato, una fuga, poi la resa. È successo sabato sera in piazza Marconi, a Frascati: un 14enne ha accoltellato un ragazzo di 16 anni, ora ricoverato in terapia intensiva. Il minore è stato arrestato per tentato omicidio.

Un episodio che impone una riflessione profonda su come stanno davvero i nostri ragazzi. Lo abbiamo chiesto al Prof. Giuseppe Lavenia, psicoterapeuta, docente universitario e presidente dell’Ordine degli Psicologi delle Marche.

Professore, come si arriva a un gesto così estremo a 14 anni?

Non si arriva da un giorno all’altro. Si arriva dopo mesi, a volte anni, in cui un ragazzo prova a comunicare un disagio che nessuno sa o vuole ascoltare. Non ha gli strumenti per raccontare il dolore, e allora lo agisce. Una coltellata non è mai solo violenza. È l’ultimo grido di chi si sente invisibile.

Cosa ci dice, dal punto di vista psicologico, un episodio come quello di Frascati?

Che i nostri ragazzi stanno male. E che non lo sappiamo vedere. Nei giovani, la sofferenza non si mostra sempre con il pianto o la chiusura. Spesso prende la forma della rabbia, della provocazione, dell’aggressività. Quello che accade fuori, è spesso lo specchio di quello che manca dentro. E se non interveniamo prima, rischiamo solo di rincorrere l’emergenza.

Un coltello tra le mani di un ragazzino. È difficile anche solo immaginarlo.

Sì, ma dobbiamo farlo. Perché quel coltello non è solo un’arma: è un simbolo. È ciò che impugna chi non ha altre risorse per affrontare un conflitto, per gestire un rifiuto, per far valere la propria voce. È l’esito di un vuoto educativo e relazionale, dove nessuno insegna più a reggere una frustrazione senza esplodere.

Chi deve colmare questo vuoto? Le famiglie? La scuola? La società?

Tutti. Non possiamo continuare a puntare il dito su una sola parte. I genitori sono spesso lasciati soli, e la scuola ha mille responsabilità ma pochi strumenti. Serve una rete, una comunità educante. Serve riportare al centro l’educazione emotiva. Perché un ragazzo che impara a dare un nome alle sue emozioni, è un ragazzo che non ha bisogno di colpire per farsi ascoltare.

Come si prevengono tragedie come quella di Frascati?

Ascoltando. Fermandosi. Riconoscendo che la salute mentale dei ragazzi è una priorità, non un lusso. Ogni giorno incontro adolescenti che portano dentro rabbia, solitudine, senso di inadeguatezza. E troppo spesso nessuno ha mai chiesto loro come stanno davvero. Finché non lo facciamo, continueremo a vedere coltelli dove invece servirebbero solo parole, abbracci e limiti sani.

Un pensiero per le famiglie coinvolte?

A entrambe. Perché in episodi così, non c’è solo una vittima e un colpevole. Ci sono due ragazzi, due vite stravolte, due famiglie travolte. Non esistono figli “mostri”. Esistono figli lasciati soli nel momento sbagliato, in un mondo che non li prepara ad affrontare ciò che sentono. A loro va la mia vicinanza, e il mio impegno perché nessun altro debba vivere questo dolore.